Angelo Flaccavento su Helmut Newton
In una breve nota di Pages from the Glossies (1998), il volume che raccoglie parte della produzione per i rotocalchi patinati, Helmut Newton sottolinea le
Sono passati ventidue anni da allora, e la supernova del progresso si è infranta ovunque contro un muro di perbenismo strisciante e stritolante, di matrice wasp, di un imperialismo invero per nulla correct. Prima fu il #MeToo, poi l’ortodossia fascista del politicamente corretto. In nome di una non meglio specificata probitas si sta imponendo il terrore, per sfuggire al quale bisogna attenersi scrupolosamente a una normativa limitante e bacchettona. Chi sbaglia o ha sbagliato in passato – e chi è senza peccato, davvero? –, non solo è perduto, ma sarà cancellato, eradicato a forza dai libri di Storia, vilipeso senza rispetto o pietà. Potrebbe accadere allo stesso Newton, a Guy Bourdin e a tutti quei fotografi che negli anni Settanta della liberazione sessuale – vera – produssero immagini scomode, provocatorie, irritanti. Lo fecero per i vari Vogue europei, ma anche per riviste di rottura come Nova, proto-femminista e radical, nella quale la donna emancipata, alla faccia del #MeToo e di tutto il resto, giocava apertamente con la propria oggettificazione mentre reificava il maschio. Il comune senso del pudore, oggi, è pruriginosissimo e intransigente: come fai sbagli, ci si scandalizza per un nonnulla. La salute pubblica è il parametro unico della riscrittura delle regole, e chissà che gli inchiappettamenti dei vasi greci non cadano sotto lo strale, perché l’età del consenso vi appare bassa alquanto e culi e paideia fanno una strana coppia. E giù roghi mediatici, peggio della caccia alle streghe. Abbiamo un bel lamentarci che non si producono più le immagini potenti di una volta, ma escludendo che il talento non si concentri in egual modo in tutti i decenni, cosa è rimasto da fare a un fotografo, ma anche a uno scrittore, per potersi esprimere? Ben poco. Se ci sono attori che rinunciano a parti da transessuale perché transessuali non sono e scrittrici bianche che ritirano memoir fittizi di donne nere per timore di censura, come si può ancora credere nell’invenzione?
Per non parlare dei casting, con quell’idea statistica e frigida di inclusione, e di una iconografia normata e opprimente dalla quale non si può in alcun modo derogare pena lo scandalo. Gli artisti “degenerati” che furono vittima delle persecuzioni nazi subirono suppergiù le stesse pressioni, e in ogni caso identico è il profondo disprezzo per la libertà assoluta e scomoda dell’atto creativo, che si vuole invece chiudere dentro un manuale che regolamenti ogni cosa e che non ammette deroghe personali. Alla faccia dell’emancipazione digitale, di un laicismo che ci vorrebbe liberi dai ceppi del pensiero errante, stiamo vivendo una delle epoche più oscure e integraliste a memoria d’uomo. Il politically correct è un dio oscuro e senza misericordia, ma l’arte è scomoda. È compito degli artisti scuotere le coscienze, irritare, squarciare veli, produrre pensiero, risultare esecrabili e scorretti. È compito della società accogliere codeste elucubrazioni, nutrirsi dello stimolo, progredire. Invece a tutto si sostituisce la religione implacabile della giusta morale, che alla fine propina una correttezza chirurgica, filistea e oscurantista, pensata da una fronda di meschini che l’arte la odiano e che in nome di una storta libertà sono terribilmente liberticidi. Chi crea si autocensura, ed è davvero la fine. Basta. Che voglia delle tette, dei culi e di tutte le nefande scorrettezze di Newton e compagnia. Invece abbiamo i braghettoni, per così dire – successe anche a Michelangelo. Il comune senso del pudore è tornato lì, o anche un po’ più indietro.
In apertura: uno scatto di Helmut Newton per Marie Claire (Berlino, 1994).
Angelo Flaccavento, columnist di Vogue Italia, è critico e giornalista di moda.