Andavamo allo Chateau Marmont
Nel 1990 lo Chateau Marmont era all’apice del suo declino e quando si presentò il nuovo proprietario che l’aveva appena acquistato, un certo André Balazs,
Si sa che i grandi alberghi sono un genere letterario, e quelli decadenti ancor di più, specialmente se con decadenze artistico-esotiche (e con celebrità perite all’interno, e dunque leggende sempiterne). Forse solo il Chelsea Hotel di Manhattan si avvicina come fama allo Chateau Marmont che, per quasi un secolo simbolo di una certa Hollywood, diventerà adesso un club per soli soci, ha annunciato appunto Balazs.
Situato tra Sunset Blvd e West Hollywood, lo Chateau Marmont, costruito nel ’29 per dare una casa alle star dei nascenti Studios, diventerà ora un club per soli soci.
Per l’hotel losangelino si tratta di un ritorno alle origini: il castellozzo che sorge tra Sunset Boulevard e West Hollywood fu fondato infatti nel ’29 come palazzo d’appartamenti per dare una casa alle crescenti star degli Studios appena nati. Il Viale del Tramonto c’era già, ma era soltanto una strada dal nome evocativo (il film arriverà solo nel 1950), e lì nel 1926 qualcuno comprò due ettari e vi fece costruire quell’imitazione di maniero con richiami allo Château d’Amboise sulla Loira (ma dentro, più spagnolesco che francese). Solo nel ’31, giusto in tempo per incocciare nel ’29 e nel crack borsistico con conseguente depressione economica e fuga degli inquilini, il palazzo diventò hotel.
Da allora, divismi di tutti i tipi, e anche tragedie: Newton, appunto, affezionato cliente che utilizzò l’hotel come fondale per alcune delle sue celebri foto, ebbe un infarto mentre usciva dal cancello nel 2004, e ne perì; John Belushi morì in albergo nel 1982, ma per overdose. Non morì ma vi ebbe solo un attacco di cuore Francis Scott Fitzgerald. Infinite leggende, catalogabili camera per camera come fece il Vanity Fair americano: James Dean che nel ’55 salta dentro alla finestra di un bungalow al piano terra per incontrare il regista di Gioventù bruciata Nicholas Ray, che al momento sta esaminando minuziosamente la minorenne Natalie Wood o forse provando una scena di triangolo con Dennis Hopper o forse peggio; Jim Morrison che anche lui prova a volare, ma dal tetto in piscina, e finisce su un tendone. Billy Wilder, regista di A qualcuno piace caldo e L’appartamento, nel luglio del ’34 sta guidando su Sunset quando si imbatte in quel castello bizzarro. Comincerà a scrivere qui i suoi film, in una specie di armadio delle scope tra le toilette al piano terra – «era una piccola stanza», disse, «ma aveva sei bagni».
La cover di “Asleep at the Chateau” di Jork Weismann, da cui è tratta l'immagine pubblicata qui sopra. Il volume è stato pubblicato da Damiani nel 2012.
Harry Cohn, fondatore della Columbia Pictures, quando Glenn Ford e William Holden si installarono nella stanza 54 al quinto piano (raggiunti poi da David Niven) consigliò: «Se vi dovete mettere nei guai, che sia allo Chateau Marmont». Lo Chateau, infatti, era soprattutto un posto sicuro. Il suo logo è un fauno, e lo slogan «Always a safe haven». Sicuro non solo per le più moderne tecnologie antisismiche nella super sismica California, ma soprattutto rifugio per divi in fuga dall’intermittente moralismo hollywoodiano: zona extraterritoriale a prova di maccartismo, tipo Palm Springs, per le star che in città dovevano essere tutte ufficialmente virtuose, ammogliate, ammodo (ma senza farsi le due ore di macchina necessarie per arrivare a Palm Springs).
(Continua)