Artiste donne: 131 ritratti di creative geniali

Artiste donne: segreti e manie

La grande Alice Walker lo ha detto più volte: «Se vuoi invitare un ospite, inclusa la creatività, devi avere lo

spazio in cui accoglierlo». Per scrivere Il colore viola non disdegnò di peregrinare in lungo e il largo per il States, prima di approdare in un villaggio che ispirasse il suo celeberrimo romanzo. Solo lì – ha detto – i personaggi hanno cominciato a parlarle. E poco importava che figlia e marito fossero lontani, miglia e miglia. Per Alice Walker la creatività richiede spazio, e devozione assoluta. Vale per tutti? Mason Currey ha provato a rispondere, mettendo sotto la sua lente di osservazione il talento femminile: ne è uscito il volume, ora pubblicato in Italia da Neri Pozza, “Grandi artiste al lavoro. Stranezze, manie e rituali quotidiani” (trad. Chiara Brovelli, pp. 416, 19 euro). Sono 131 ritratti di donne creative e geniali, a volte lunghi quattro pagine, altre solo poche righe, ché bastano a capire “la misura del tutto”.

Grandi artiste al lavoro di Mason Currey (Neri Pozza)

Isadora, Colette e Margaret, le pioniere

Danzatrici divine cone Isadora Duncan, che viveva come se gli orologi non esistessero, scrittrici impegnate come Colette, perennemente “arenate” sul letto per comporre, o fotografe come Margaret Bourke-White che, prima fotografa occidentale a essere ammessa in Unione Sovietica, prima donna corrispondente di guerra per gli Stati Uniti e primo membro donna dello staff della rivista Life, dove i colleghi la chiamavano “Maggie l’indistruttibile”, quando poggiava sul tavolo la macchina fotografica per dedicarsi alla scrittura cambiava pelle. Diventando più routinaria di una impiegata delle poste. Currey riporta questo aneddoto di Nina Leen, un’altra apprezzata fotografa di Life: «La prima volta che incontrai Margaret, le chiesi di pranzare con me, ma lei rispose che era alle prese con un libro e che pranzare insieme sarebbe stato impossibile per parecchi anni».  Pare incredibile. A Margaret Bourke-White è dedicata, a Palazzo Reale di Milano, una mostra strepitosa che si potrà visitare non appena l’emergenza sanitaria renderà fruibili di nuovo i musei.

Grandi talenti dei secoli scorsi e icone del presente, come Patti Smith

Il libro non si ferma alle artiste donne del passato, ma ci racconta anche le nostre contemporanee. Ecco “routine creativa” di Patti Smith, narrata da lei stessa: «Mi alzo e, se mi sento fuori fase, faccio un po’ di ginnastica. Do da mangiare al gatto e poi mi prendo il mio caffè, afferro un taccuino e scrivo per un paio d’ore. Poi vado a zonzo. Cerco di fare lunghe camminate e cose del genere, ma in verità ammazzo soltanto il tempo in attesa che cominci qualcosa di bello in tv».  Si isola invece da tutto la scrittrice Zadie Smith che ha pubblicamente ringraziato due software come Freedom e Self Control che “bloccano Internet” sul pc e «creano il tempo», sempre più sotto assedio da distrazioni digitali. Susan Sontag, una che la vita l’ha sempre presa a morsi e che detestava la solitudine imposta dalla scrittura (che pure per lei era esigenza, ossessione), una volta disse: «Lavorare è piú divertente che divertirsi».

Ciascuna, anche in questo, ha il suo stile, e tra le “stranezze” documentate da Mason Currey nel libro abbiamo deciso di raccontarvene alcune.

1.Gli esami del sangue di Yayoi

La grande artista giapponese famosa per le sue zucche, i suoi puntini, le sue visioni è la quintessenza della maniacalità. Yayoi Kusama, classe 1929, da decenni vive – su sua richiesta – in un manicomio dove tutte le mattine, dopo la sveglia alle 7, si sottopone agli esami del sangue  e poi, dopo colazione, si reca nell’atelier che si trova al di là della strada e vi rimane dalle 10 alle 19, tutti i giorni. Se avete voglia di immergervi nei suoi puntinicliccate qui 

Yayoi Kusama al lavoro

2. Le domande di Pina

Forse la più grande coreografa di sempre, Pina Bausch (1940-2009) ha rivoluzionato il mondo della danza facendo domande, sempre, a tutti. «Pina fa domande -  ha detto  a Currey un membro del corpo di ballo che collaborò con lei per diversi anni - a volte si tratta di una parola soltanto o di una frase. Ciascun danzatore ha il tempo di pensare poi si alza e le mostra la sua risposta, danzata o parlata, singolarmente o con un partner, servendosi di arredi scenici, o come altro vuole. Pina osserva, prende appunti, riflette». Un metodo di lavoro aperto, eppure molto preciso. Qui il trailer della pellicola che Wim Wenders ha dedicato a Pina Bausch, in cui  tutto questo si racconta:

3.L’incantesimo di Nina

Nella sua autobiografia, “I Put a Spell on You”, Nina Simone (1933-2003) racconta «La gente veniva a vedermi perché sapeva che mi spingevo al limite e che un giorno avrei potuto fallire: per lanciare il mio incantesimo su chi veniva ad ascoltarmi, partivo con una canzone adatta a creare una certa atmosfera, che poi trasferivo nella successiva, e poi nella terza, fino ad arrivare a un climax di sentimenti, e a quel punto erano tutti ipnotizzati. Per verificarlo, tacevo e per un momento non facevo nulla, e sentivo silenzio assoluto: erano miei. Era sempre un momento quasi soprannaturale. Sembrava ci fosse da qualche parte una presa elettrica a cui ci attaccavamo tutti, e più gente c’era, più era facile, come se ogni singolo spettatore fornisse una quantità di energia. Quando passai dai club a sale più grandi, imparai a prepararmi con cura: ci andavo nel pomeriggio, quando non c’era ancora nessuno, e giravo per vedere dove si sarebbe seduto il pubblico, per capire quanto sarebbero stati vicini quelli in prima fila, quanto lontani quelli in ultima, e se i posti erano più stretti o più distanziati, per osservare le dimensioni del palco, il posizionamento delle luci, dove si sarebbero uditi i microfoni... tutto... Cosí, quando andavo in scena, sapevo esattamente quello che stavo facendo».

Nina Simone

© Getty Images

4. Il cuscino di Louisa May Alcott

Per capire come lavorava la mitica Alcott basta leggere i capitoli di Piccole Donne dedicati a Jo March: scriveva in preda ad attacchi di energia creativa e di ossessività, saltava i pasti, dormiva poco e riempiva il foglio con una furia tale che alla fine dovette imparare a usare la mano sinistra per concedere una pausa alla destra, in preda ai crampi. Questa specie di “divino impeto” durava di solito un paio di settimane: durante gli attacchi di creatività si rintanava nella sua stanza (la scrittrice visse a lungo con i genitori) e lavorava al piccolo scrittoio a mezzaluna che le aveva costruito il padre. Aveva con sé un “cuscino dell’umore” in base al quale i famigliari sapevano se potevano rivolgerle la parola o far finta che non ci fosse.

5. Il segreto di Margaret

Margaret Mitchell (1900-1949) cominciò a scrivere Via col vento intorno al 1928 e lo consegnò finalmente a un editore, che era in visita a casa sua, nell’autunno del 1935. Secondo una sua stessa stima, ogni singolo capitolo del libro era stato scritto almeno venti volte. Nonostante fosse già una giornalista di successo, il “long form” la terrorizzava. Scriveva in soggiorno, con indosso una visiera verde e pantaloni da uomo per ricreare l’ambiente di una redazione di giornale, che tanto le era caro e quando lavorava era ossessionata dalla privacy. Non rivelò mai a nessuno la trama del suo romanzo fino alla pubblicazione. Eccola, in una rara foto conservata allo Smithsonian  Institute.

Vivien Leigh e Hattie McDaniel, Via col vento, 1939.

© Photography Alamy

6. La routine autoimposta di Virginia

Virginia Wolf (1882-1941), che reclama una “stanza tutta per sé”, per poter esprimere la sua creatività, aveva di fatto strutturato la sua vita lavorativa con una routine che si autoimponeva per la sua stessa sanità mentale: scriveva racconti o articoli nella prima parte della mattinata, appena prima o subito dopo pranzo revisionava, dopo il tè veniva il momento per il diario o la corrispondenza mentre le serate erano dedicate alla lettura o a vedere gente. «Come facciano i grandi scrittori a lavorare la notte, è un mistero per me -  scrisse nel diario. Ci ho provato una vita fa, e la mia testa è piena di ovatta: calda, incompleta». Qui trovate alcuni suoi splendidi ritratti.

7. La solitudine di Cindy

Cindy Sherman (qui potete immergervi un po’ nel suo mondo) lavora in assoluta solitudine. In studio posiziona uno specchio vicino alla macchina fotografica, si guarda e pensa «di diventare una persona diversa, come in uno stato di trance» (disse nel 1985). Ovviamente, questo non accade a orari stabiliti: «Non sono un’artista con orari da ufficio». Non sa mai dire in anticipo quanto tempo impiegherà per creare una foto nuova (ma di rado non rispetta le consegne dei committenti): «Alla fine mi ritrovo prosciugata, o distaccata dal lavoro, così ripulisco lo studio e metto via tutto. Anche se mi vengono altre idee in sottofondo, può passare anche un paio d’anni prima che rimetta piede nello studio».

Cindy Sherman, Imitation of Life, 1981

© Untitled #92, 1981 © Cindy Sherman

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