Armani e Scorsese: un incontro
Martin Scorsese, in questa intervista esclusiva, ricorda quel Maggio 1990. Quando, tornando da Cannes, decise di fermarsi a Milano per raccontare con un documentario il
Martin Scorsese li ricorda come alcuni dei giorni più felici della sua vita: «Vedere Armani al lavoro nel suo atelier e tradurlo in linguaggio cinematografico, nel momento esatto in cui il suo stile rivoluzionava la moda e lui vestiva il mondo, ha rappresentato un istante di gioia al quale mi capita di ripensare spesso», racconta il maestro a Vogue Italia.
Foto di Masha Vasyukova. Model: Giedre Dukauskaite @ Women.Cappotto lungo in velluto di seta con dettaglio signature, borsa a tracolla “La Prima” di velluto e vernice; tronchetto di vernice e velluto. Orecchini e anello in oro bianco, diamanti e onice. Giorgio Armani A/I 2020.
Vestito di bianco. Senza la barba e i baffi affilati che aveva portato fino alla presentazione de L’ultima tentazione di Cristo, Scorsese in quei giorni faceva ritorno da Cannes, dove aveva accompagnato Akira Kurosawa per la proiezione di Sogni. Era il maggio 1990: esattamente trent’anni fa. E Milano mostrava le piroette di sabbia delle sue guglie ma neppure un quartiere di grattacieli o boschi verticali: «Una città incredibilmente varia pur nelle sue dimensioni relativamente ridotte, con una miscela di antico e moderno che mi aveva impressionato», ricorda il regista, «per non parlare dei tanti riferimenti cinematografici che ha regalato: Anna, Il posto, Rocco e i suoi fratelli, La notte, Mafioso».
Foto di Masha Vasyukova. Giacca con ricamo floreale di tessuto fil coupé multicolor e bordi di velluto, pantaloni a sbuffo di velluto con baschina imbottita e frange all'orlo e tronchetto di vernice e velluto. Mono orecchino pendente in metallo e resina con cristalli e bangle in oro nero e diamanti. Giorgio Armani A/I 2020.
Il suo volo di ritorno a New York, dove andava terminato il missaggio di Quei bravi ragazzi, era previsto da qui. Giusto il tempo di fermarsi dall’amico Giorgio Armani e girare in sei giorni un documentario che da lì a pochi mesi sarebbe stato proiettato alla Mostra internazionale d’arte cinematografica di Venezia. Made in Milan, è il titolo. Un film dove Armani interpreta se stesso, fa da protagonista e voce narrante, con quei modi privi d’enfasi che qua e là fanno persino commuovere: «Sorridi a te stessa, alla tua giovane vita e ai tuoi vestiti», dice a Susan, una modella un po’ rigida in passerella. O quando traccia un bozzetto di fronte ai collaboratori: «Fingere d’essere sicuro di me stesso è all’ordine del giorno». Una sorta di autobiografia recitata, voluta da Scorsese per una reciproca danza di umiltà e rispetto: «Girare in stile verité, come avevo fatto per Italianamerican dedicato ai miei genitori, non gli sarebbe stato fedele. Il film doveva avere un’eleganza che sapesse rispondere al suo senso dell’eleganza. Una struttura, e un design, all’altezza del suo senso della struttura e del design». Una visione in cui Armani, nel suo rigore blu, nel suo derivare necessariamente da se stesso, si solleva agli occhi di Scorsese al rango di paradigma: «Senza un solido nucleo centrale la creatività è destinata a realizzarsi in opere artefatte. Vale per il cinema. E sospetto valga anche per la moda».
Made in Milan si trova in rete facilmente. Guardatelo: perché è una lezione di indietreggiamento. Un ingresso nella mente di due maestri che quasi soffrono dell’essere maestri, vibrano del timore che nessuno abbia più il coraggio di indicar loro una strada, osar l’appunto di un errore, e si specchiano fiduciosi l’uno nell’altro. Di fronte all’amico, al punto di riferimento, Scorsese si arresta: «Vederlo all’opera è stata un’esperienza salvavita, nell’esistenza e nel lavoro. Di lui ammiro la capacità di visione, e l’indomabile dedizione a realizzarla pienamente. Il film è sbocciato come qualcosa di organico dalla sua arte». Giorgio Armani, che sognava di fare il regista e disegna abiti «come fossero i costumi di quel set che è la vita», guarda all’amico come il possessore di un’espressione artistica superiore, e si lascia guidare. È stato lui a raccontare, poco dopo la lavorazione: «Provo sempre ritegno a espormi, e son tra quelli che non si amano molto e vorrebbero avere sempre il meglio: la faccia di Tom Cruise, la voce di Lawrence Olivier, la bravura di Paul Newman. Durante le riprese mi sembrava spesso di non esser stato granché, ma a Scorsese andava bene così, e siccome il regista era lui, mi sono abbandonato».
Foto di Masha Vasyukova. Camicia e pantaloni in organza di seta ricamati all-over con medagliette di vetro, cristalli e frange di perline. Giorgio Armani A/I 2020.
Si sono conosciuti nel 1983 e la collaborazione è proseguita per quarant’anni. Scorsese a metà degli anni Ottanta ha diretto il primo spot televisivo di Emporio con Christophe Bouquin e Cristina Marsillach. Pochi anni dopo, per una fragranza maschile, anche un thriller di trenta secondi che termina col flacone rovesciato a distillare gocce sul pavimento, eco di un magistrale “mai più” lasciato da un uomo che va via. Armani, con costanza, ha restituito tutto: sponsorizzando nel 2015 una retrospettiva parigina alla Cinémathèque. Producendo il documentario My Voyage to Italy (1999) e supportando la sua World Cinema Foundation per il restauro di pellicole dimenticate. E in ultimo, accompagnando con gli abiti l’ascesa e la discesa di Leonardo DiCaprio in Wolf of Wall Street: «Se il cinema ha ispirato Giorgio, Giorgio ha ispirato me», ammette Scorsese.
Tanti onori, ma poi nella mente che resta? Armani che in Made in Milan ricorda sua madre mentre cuce con maestria i vestiti per lui e i suoi fratelli, semplici nell’infanzia a Pavia ma invidiati da tutti. E resta la dedica dell’amico: «Vesto Armani ogni volta che posso, perché il suo stile è centrale nel modo in cui mi vedo nel mondo. Giorgio: ti amo e t’ammiro. Ci conosciamo da quarant’anni. Ma ti giuro, mi sembra ieri».