Essere Avedon
What Becomes a Legend Most non è solo una biografia di Richard Avedon: è una monografia vasariana sulla fotografia con cui il critico fotografico Philip
Per questo l’influenza dell’arte classica sulla sua fotografia è stata così grande?
Avedon voleva davvero essere un poeta ed è arrivato a riconoscere fin dall’inizio della sua vita il potere dell’arte e della letteratura, della società e della storia e, addirittura, del futuro. Ha capito istintivamente la portata e la forza dell’arte, indipendentemente dal medium usato. Tra i suoi amici e talvolta collaboratori c’erano i migliori scrittori della sua epoca: James Baldwin, Truman Capote, Harold Brodkey, Adam Gopnik. Ed era ossessionato dal teatro, al punto che vedeva lo stesso spettacolo una mezza dozzina di volte. Nel 1988, fece quattro viaggi da New York a Stoccolma per assistere a una produzione di Long Day’s Journey into Night di Ingmar Bergman. Avedon non solo è stato commosso dal teatro, ma è stato formato da esso. Ha parlato spesso del ritratto come di una performance. Diceva: «Mi fido delle performance. Rimuoverle non ti porta necessariamente più vicino al soggetto». La questione per lui non era se un ritratto è naturale o innaturale, ma se la performance è buona o cattiva. Credo sia andato a teatro per cercare di discernere la linea sottile tra l’attore e il personaggio. Lui stesso si sentiva spesso come un attore che interpretava Richard Avedon.
Richard Avedon al lavoro sul set nel 1966. What Becomes a Legend Most, il volume firmato dal critico fotografico Philip Gefter, sarà pubblicato in ottobre da HarperCollins
© BURT GLINN / MAGNUM PHOTOS
Lei ripete spesso che Avedon è riuscito a conciliare nella sua estetica l’avanguardia e il gusto più tradizionale della borghesia. È questo il tratto più moderno della sua fotografia?
Nella sua vita e nel genere del ritratto fotografico, Avedon ha compiuto qualcosa di radicale: ha spogliato il quadro della cornice fino a ritrarre il soggetto senza contesto, senza abiti da cerimonia, rappresentando l’individuo nella sua verità esistenziale. Distillò il ritratto in qualcosa che si avvicinasse il più possibile alla più pura articolazione della materia visiva che la macchina fotografica fosse in grado di restituire. È qualcosa di molto radicale, eppure, per anni, i potenti e i ricchi si sono accalcati attorno a lui per commissionargli ritratti per via del suo prestigio. Uno dei miei aneddoti preferiti del libro è quello di Holly Solomon, consacrata dalla stampa con il soprannome di “Principessa del Pop”, famosa per la sua galleria a Soho e per l’importante collezione d’arte contemporanea. Nel 1963 si avvicinò ad Avedon per farsi fare un ritratto. Quando lui le disse che il suo compenso era di 12mila dollari (circa 100mila dollari di oggi), lo trovò così scandaloso e inconcepibile che andò da Warhol. Quel suo ritratto è tuttora al MoMA.
(Continua)