Louis Vuitton: Nicolas Ghesquière sulla sfilata e sui cambiamenti nella moda
La sfilata di Louis Vuitton, uno dei momenti più attesi della settimana della moda di Parigi, è da sempre il gran finale che si tiene
Un’enorme differenza fra oggi e il “prima” è che gli stilisti e i giornalisti hanno avuto la possibilità di parlare fra di loro dalle loro rispettive abitazioni una domenica pomeriggio. Dalla sua casa di Parigi Ghesquière si è collegato su Zoom — ci sono state anche un paio di apparizioni a sorpresa dei suoi due labrador neri Achille e Leon — e ci ha raccontato dei suoi progetti regalandoci le sue riflessioni sugli enormi stravolgimenti che hanno influito così pesantemente su tutti noi da quando il designer ha organizzato l’ultimo grande evento della moda che si è tenuto a Parigi: la sfilata autunno inverno 2020 di Vuitton, il 3 marzo scorso. La sfilata, che ha spettacolarizzato le tematiche della moda e del tempo, è stato l’ultimo grande evento “in presenza” prima che l’Europa andasse in lockdown un paio di settimane più tardi.
Nicolas, il tempo che passa fa davvero la differenza! Dopo una sfilata così grandiosa la scorsa stagione, cosa pensi del ritorno, sei mesi dopo, in circostanze così diverse?
“Se mi guardo indietro, è vero, è stata l’ultima grande sfilata dell’era pre-Covid. Ed è stata una strana coincidenza che la sfilata parlasse del tempo, ci siamo chiesti, ‘Che succederebbe se il passato potesse guardarci?’ Ovviamente, avevamo un’idea di quello che stava per succedere. In qualche modo stavamo negando la cosa per poter realizzare la sfilata, ma, voglio dire, tutta la Paris Fashion Week è andata così. Arrivavano notizie ogni giorno, ogni ora. Essere gli ultimi a sfilare è stata una cosa molto forte”.
La sensazione di essere sul punto di andare in lockdown è una cosa che credo nessuno dimenticherà mai. Abbiamo tante cose di cui parlare, ma prima di tutto: stai per sfilare con la primavera estate 2021 ai magazzini La Samaritaine, proprio di fronte alla sede di Louis Vuitton. È stato un cantiere per anni…
“La Samaritaine è uno dei grandi magazzini storici. Si trovano proprio al centro di Parigi, non lontano da Notre-Dame. Quando sono stati inaugurati, negli anni 20 (quando venne aggiunta la famosa facciata art déco, NdR), sbaragliò la concorrenza, perché erano i più moderni di tutta Parigi. Quando sono venuto a Parigi negli anni 80 e 90 cadevano a pezzi. Poi sono stati comprati da LVMH, che ha fatto un lavoro fantastico per restaurare quel gioiellino. Doveva riaprire questa primavera, ma ovviamente non hanno potuto farlo”.
Quindi la serendipità ha funzionato, parlando di location?
“Il mio ufficio si trova proprio lì di fronte. È uno spazio davvero stupendo. Hanno lavorato al restauro per dieci anni. Dal punto di vista architettonico è davvero bellissimo, è un capolavoro art déco. Hanno chiesto agli architetti giapponesi di SANAA di occuparsi di un’altra parte dell’edificio, e adesso c’è questa verrerie, una serra, sul piano più alto, è una fusione dei due palazzi. È grande, è vuoto. Non abbiamo dovuto nemmeno portare gli abiti dall’altra parte di Parigi. Tutti sono al sicuro, è una cosa molto pratica. E poi ci si sente a casa, è una cosa molto bella”.
Puoi dirci che cosa vuoi rappresentare con la sfilata e che tipo di impatto speri di avere?
“Il messaggio è che oggi non possiamo essere stravaganti. Sarà una bella sfilata, e vogliamo avere un atteggiamento responsabile senza sacrificare l’effetto che voglio ottenere, ovvero presentare una grande sfilata, ma forse in modo più equilibrato di quello che eravamo abituati a fare, quando avevamo un pubblico di 2.000 persone. Ci saranno due sfilate, con 200 ospiti ognuna. Ci saranno al massimo 40 uscite, prima di tutto perché non è il momento di sviluppare troppe cose, ma anche perché dobbiamo essere consapevoli del tipo di attenzione che abbiamo sui social,dobbiamo essere molto attenti alla durata della sfilata”.
Perché è così importante per te fare una sfilata fisica?
“Per me una sfilata dal vivo è assolutamente necessaria. Questo è il mio punto di vista, ovviamente, si tratta di moda, si tratta di mandare un messaggio importante per il futuro, ed è questo, anche, la moda: guardare avanti, è qualcosa che crea il desiderio. E poi per me la responsabilità di fare la sfilata è una cosa importante perché qui si tratta del lavoro degli artigiani, dell’atelier, delle persone che lavorano alla produzione. La parte economica, e la loro passione. Mi sento molto responsabile per questo adesso, a essere sinceri. La responsabilità di andare avanti”.
L’idea di ridimensionare la sfilata rappresenta una sfida per te? Come hai pensato di presentarla a livello globale?
“Be’, no, sono abituato a farlo quando ero da Balenciaga, non è così strano! Facevamo le sfilate nello showroom. Anche se è strano non poter interagire con le persone come facciamo ogni anno. A volte ci lamentavamo quanto fosse stancante, ma sinceramente adesso mi manca. Mi manca di vedere gli amici che vengono da ogni parte del mondo. Ma il digitale è fantastico, grazie alle nuove tecnologie se non puoi essere presente come ospite, avrai comunque un posto alla sfilata. Avrai una cinepresa, vedrai. Si aprono tantissime nuove opportunità e prospettive. Un altro passo verso la globalità, e credo sia assolutamente necessario. A volte abbiamo fatto sentire escluse le persone. Quindi forse questo è un modo per far sentire le persone più incluse”.
Il ruolo della moda è anche quello di condensare il momento storico in cui viviamo. Ci puoi dare un’idea delle tematiche su cui stai lavorando?
“Una delle idee che mi hanno più interessato negli ultimi anni è quella della moda genderless e del cambiamento che l’accompagna, il modo in cui gli abiti oggi sono molto più accessibili a persone di genere diverso e non binario. C’è questa zona di mezzo che sta diventando sempre più importante. Non voglio definirla una zona grigia, è una zona arcobaleno. I giovani stilisti lo fanno da anni, non è per niente un concetto nuovo, ma è diventato molto interessante, credo, anche per i grossi brand come Louis Vuitton. Ci sono donne che comprano un sacco di abiti di Virgil (Abloh, direttore artistico di Louis Vuitton menswear, NdR) e di uomini che comprano i miei”.
Ci sono ancora tanti vecchi stereotipi su come viene percepito il womenswear…
“Quando ero piccolo, una donna di potere veniva sempre definita dal modo in cui si era appropriata degli asset di un uomo e li aveva usati. Pensavamo che questo volesse dire di solito indossare spalle importanti, capi maschili, cose così. Penso che il menswear abbia fatto una cosa fantastica, cioè passare dall’altra parte, presentare tante collezioni fantastiche con capi che credevamo fossero inusuali per l’uomo. Io non mi occupo di menswear, ovviamente — lo fa Virgil— ma c’è questa zona di mezzo.
“Ho scelto moltissime persone non-binarie come modelli negli ultimi anni per Louis Vuitton. Ovviamente, rappresentano la loro community, ma volevo estendere questa cosa anche alle donne. Non significa che io voglia vestire le donne con capi da uomo, ma mostrare abiti che sono lì, nel mezzo. Non chiaramente femminili o maschili, ma in mezzo. C’è una sezione in cui ci sono magliette over, ma in modo elaborato. Probabilmente ci ritroverete alcune delle cose che facevo all’inizio. Ed è quella la mia direzione per questa stagione”.
Mi interessa sapere come hai passato il lockdown. Hai imparato qualcosa di positivo di cui hai fatto tesoro?
“Quello che è stato prezioso dal punto di vista mentale è che ho potuto interagire molto di più con i miei amici, anche se non era ‘reale’. Essere isolati veniva compensato dall’ essere connessi. Prima ci pensavo due volte prima di chiamare una persona perché avevo sempre qualcosa da fare, e dopo un’altra cosa ancora. Adesso trovo il tempo per farlo. Mi prendo il tempo di sentire il tempo, di essere più umano”.
Hai parlato del tuo senso di responsabilità, una bella parola da usare in questo momento in cui la nostra vita è stata rallentata, ma in cui stanno anche esplodendo problemi enormi.
“Mi è piaciuta in un certo senso l’accelerazione delle tematiche che abbiamo dovuto affrontare. Come la sovrapproduzione delle collezioni, gli stereotipi delle sfilate, o a volte solo il fatto di fare più prodotti. Mi piace molto il fatto che adesso possiamo andare dritti al punto. Oggi, non c’è nessun dubbio, dobbiamo fare la cosa giusta, e quella cosa deve avere il giusto equilibrio fra impatto e praticità. Invece di fare 10 cose, ne fai una. In un certo senso, dover affrontare questa cosa è piacevole. Oggi fare meno ma meglio è una cosa piuttosto gradevole. Questo è stato il lato positivo del rallentamento durante il lockdown. C’era un senso di serenità data dal fatto che tutti andavano allo stesso ritmo, e con meno dello stress di quel mondo”.
Sei riuscito a mettere in pratica queste cose?
“Be’, la mia collezione Cruise è stata realizzata solo con stock di magazzino. E la produzione, ecco un altro piccolo esempio. E ho scattato io la campagna, è stata la mia prima volta. E mi è piaciuto moltissimo farlo. È stato molto bello, ho dovuto essere creativo ma in un modo diverso . Alla maison è piaciuta moltissimo, mi hanno chiesto di farne una seconda, e adesso si parla di un terzo adv”.
Le persone ora viaggiano meno nel mondo per andare alle sfilate a causa della pandemia. Tu già in passato organizzavi gli show Louis Vuitton Cruise in tanti Paesi, e portavi gli abiti al pubblico del luogo. Questo continuerete a farlo?
“Per Louis Vuitton, l’idea del viaggio è fondamentale. Ma oggi dobbiamo reinventare l’idea di spostamento. Abbiamo fatto cose folli, adesso sembra un mondo lontanissimo: abbiamo fatto sfilate Cruise a Kyoto, Rio, New York… Quindi non lo so se smetteremo di viaggiare, facciamo ancora sfilate in Paesi diversi. Ma una soluzione potrebbe essere quelle che chiamano le sfilate ‘spin-off’. La produzione viene affidata a persone del luogo. Lo abbiamo fatto in Corea prima del lockdown. Io ero scettico, perché non ero lì, ma abbiamo fatto un sacco di briefing, e chiamate su Zoom e loro hanno fatto un lavoro fantastico. Sono quelli che nel passato chiamavamo trunk show”.
Anche il movimento Black Lives Matter è stato un grosso campanello d’allarme e una sfida per la fashion industry a livello globale. Qual è stata la tua reazione?
“Il movimento ha accelerato una situazione che era già marcia, e ovviamente è una cosa buona. Devi guardarti intorno e domandarti: perché non abbiamo più diversità in generale? Pensaci bene, molto bene. Chi c’è intorno a te? È una cosa giusta? Sai cosa è interessante? Nelle maison di solito trovi la più grande diversità all’interno degli atelier. Dobbiamo approfondire questo aspetto. C’è moltissimo da fare”.
Per moltissimi aspetti sembra che i cambiamenti avvenuti quest’anno siano definitivi, ma che portino con sé anche enormi potenzialità. Credi che torneremo alla “normalità”, o che la moda guarderà avanti e costruirà un sistema migliore?
“Non credo che torneremo a come eravamo prima, io spero di no. A essere sinceri, le cose non andavano bene. E spero questo possa essere un passo in avanti per la consapevolezza di questo mondo”.
*Intervista editata e sintetizzata