Da Il giardino delle vergini suicide a Tredici: la salute mentale al cinema
Nel secolo scorso, la salute mentale non era rappresentata con grande ricchezza di sfumature. I film, con poche eccezioni, dipingevano la ‘pazzia’ con brutale sensazionalismo.
La cultura popolare del ventesimo secolo è piena zeppa di esempi di come non rappresentare la salute mentale. Nella maggior parte dei casi si ha a che fare con ritratti bidimensionali di una condizione che merita ben altra attenzione e considerazione. Se oggi la salute mentale è ritratta con più accuratezza, è perché se ne parla sempre di più – con l’evoluzione del dialogo e della consapevolezza, si è evoluto anche il modo in cui essa viene raffigurata. Quindi quando la cultura l’ha imbroccata giusta? Quando, invece, ha sbagliato?
Torniamo all’inizio
Più indietro si va, meno sfumati sono i ritratti. Nella letteratura, Charles Dickens ci ha consegnato Miss Havisham, l’archetipo della zitella diGrandi speranze (1860) che indossa sempre l’abito da sposa. Perché sì, è una vecchia ‘pazza’.
Nei film, se un personaggio era depresso (così si pensava) doveva esserci una gran buona ragione. Pensate a James Stewart in La vita è meravigliosa (1946). È pronto a buttarsi da un ponte perché ha perso il lavoro e i mezzi per mantenere la famiglia. È terribile, ma dov’è la sottigliezza? Dove sono i personaggi che soffrono della comune depressione in cui è più facile riconoscersi?
Una parte del problema era che tipicamente i racconti prediligevano gli estremi. Guardando thriller horror come Psycho (1960), in cui lo psicotico Norman Bates si veste come la madre morta, si capisce quanto fossero strettamente collegate la ‘pazzia’ e la follia omicida nell’immaginario popolare. Quei film suggeriscono che la malattia mentale e la violenza vanno sempre mano nella mano – senza bisogno di esami.
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Se Hollywood ha mai offerto ritratti soddisfacenti dei problemi mentali, tendevano a essere storie di giovani. Un caso emblematico: l’adolescente tormentato interpretato da James Dean in Gioventù bruciata (1955), con la sua impareggiabile frase “Mi stai facendo a pezzi!” C’è chiaramente un tumulto interiore che bolle sotto la superficie, causa di un’angoscia che è difficile da definire.
La nuova Hollywood e gli abissi della condizione umana
Negli anni Settanta e Ottanta, i giovani registi furono ispirati dal cinema europeo a sondare gli abissi della condizione umana. Tra i migliori ci fu il film premio Oscar Gente comune (1980), di Robert Redford, su una famiglia di provincia che affrontava la perdita di un figlio. Affronta il trauma, il dolore e la depressione, mentre il figlio sopravvissuto lotta con pensieri suicidi e con il crollo della sua famiglia.
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Un altro film intelligente che esamina scrupolosamente la salute mentale è Una moglie (1974), in cui Gena Rowlands interpreta una madre con uno stato mentale che va degenerando e provoca conseguenze devastanti. Il film si chiede che effetti abbia una condizione simile su una madre affettuosa che va a prendere i bambini allo scuolabus ogni giorno.
Un anno dopo, tuttavia, arrivò il film vincitore dell’Oscar Qualcuno volò sul nido del cuculo (1975). Basato su un romanzo del 1962 di Ken Kesey, raffigura un ospedale psichiatrico come una spaventosa prigione con le finestre munite di sbarre e pazienti sottoposti all’elettroshock, il che non ha fatto molto per allontanare lo stigma di essere internati in una struttura psichiatrica (non dimenticate che è appena uscita una serie Tv che racconta dell'infermiera capo di quell'ospedale, Ratched su Netflix).
Bollitori di coniglietti e killer psicopatici
Eccezioni a parte, negli anni Ottanta la ‘pazzia’ era ancora un sinonimo di male. Jack Nicholson in Shining ne è un esempio evidente, come lo è Michael Myers, il malato di mente fuggito dal manicomio di Halloween – La notte delle streghe (1978). O anche il preferito degli yuppie, Christian Bale nei panni di Patrick Bateman in American Psycho (2000). Come altri thriller, conferma le nostre paure riguardo ai personaggi psicotici che non sono in sintonia con il mondo.
C’è poi lo stereotipo della ‘donna isterica’. Benché prenda molte forme – la fidanzata appiccicosa, la moglie brontolona – è radicato in una certa letteratura che descrive le donne come emotivamente instabili e irrazionali. Pensate ad Ally Sheedy, la ‘pazza’ di Breakfast Club (1985) o a Diane Keaton nel ruolo che dà il titolo al film Io e Annie (1977), alla quale Woody Allen dice: “Ti sta venendo il ciclo?” quando lei si sta lamentando di qualcosa.
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Questi ruoli femminili sono superficialmente definiti ritratti di donne ‘pazze’ senza alcuna diagnosi più approfondita da cineasti spesso maschi. Attrazione fatale (1987) è un ottimo esempio. La Alex Forrest interpretata da Glenn Close si vendica facendo bollire il coniglietto – ma non c’è alcun dubbio sulla sua condizione di salute mentale. Il film si occupa di descrivere il personaggio di Michael Douglas intento a cancellare lei e lo sbaglio della sua relazione. Immaginate se fosse stata sua moglie a essere tormentata, lui come avrebbe affrontato la cosa e come l’avrebbe sostenuta? Nel 2017, Close riflettendo sul suo ruolo ha detto al New York Times: “È considerata malvagia, invece che una persona che ha bisogno di aiuto”.
Ragazze interrottecontroIl giardino delle vergini suicide
Negli anni Novanta, ci furono interpretazioni più sfumate, benché senza grandi miglioramenti. Ragazze interrotte (1999), per esempio, era la versione al femminile di Qualcuno volò sul nido del cuculo e ritraeva un reparto psichiatrico come un pigiama party inquietante ma divertente. Il personaggio di Winona Ryder, Susanna Kaysen, a cui viene diagnosticato un disturbo borderline di personalità, è quello con più sfaccettature. Tuttavia, il film si riduce sostanzialmente a una caricatura di ragazze ‘pazze’ con problemi con la figura paterna che indugia sul sorriso sinistro di Angelina Jolie mentre si preme una penna sulla gola.
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Quello stesso anno, un’interpretazione più convincente di ragazze alle prese con l’ansia fu offerta da Sofia Coppola con il suo Il giardino delle vergini suicide. Si capisce che Coppola era interessata alla vita interiore delle sorelle Lisbon, la cui profonda depressione e le cui azioni non sono percepite dal mondo come un grido d’aiuto. Un medico dice persino a una delle ragazze che non è abbastanza grande per sapere come diventa dura la vita. La sua risposta? “Evidentemente lei, dottore, non è mai stato una ragazza di 13 anni”.
Gli anni duemila e la nascita dello psicodramma da tabloid
Nella cultura popolare non c’era ancora alcun dialogo serio sulla salute mentale, nemmeno all’inizio degli anni Duemila. Vale la pena citare Britney Spears, che ebbe il suo famoso esaurimento nervoso nel 2007 dopo la separazione dal marito. A posteriori, la cosa più scioccante da osservare è la bassezza con cui i media riportarono la storia. ‘Britney’s suicide drama!’, ‘Britney Shears!’ o semplicemente ‘Insane!’ furono solo alcuni dei titoli dei tabloid. In quel decennio non c’era la sensibilità che ci sarebbe oggi, quando i media sarebbero tenuti a rispondere di simili pubblicazioni e puniti di conseguenza.
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Il lato positivo - Silver Linings Playbook (2012) sembrò costituire una sorta di salto in avanti nelle rappresentazioni della salute mentale, anche perché Jennifer Lawrence vinse l’Oscar alla migliore attrice per la sua interpretazione di una giovane vedova con un non menzionato disturbo. Il suo personaggio incontra quello bipolare di Bradley Cooper e tra i due nasce una storia d’amore non convenzionale. È una pellicola intelligente che affronta con humor un argomento serio. Soprattutto, mette un personaggio bipolare al centro invece di relegarlo a un ‘bizzarro’ ruolo secondario.
L’importanza di una rappresentazione ricca di sfumature
Solo negli ultimi anni il piccolo schermo ha cominciato a rispecchiare le conversazioni mainstream sulla salute mentale. La serie Tredici (2017) ha descritto l’autolesionismo e il suicidio. Gli amici di Hannah Baker dopo la sua morte si chiedono: quali erano i segni? Perché nessuno si è accorto della sua depressione? La serie mostrava il lato oscuro dei social e il cyberbullismo ma, secondo molti, ha gestito male alcuni aspetti, vale a dire la scena esplicita del suicidio (in seguito rimossa da Netflix) in cui la macchina da presa si soffermava inutilmente su Hannah mentre si toglieva la vita.
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Tuttavia, Tredici ha evidenziato la questione di come questi temi estremamente delicati dovrebbero essere affrontati in TV, l’importanza di raccontare certe storie responsabilmente e quella degli avvertimenti che segnalano la presenza di scene forti all’inizio di ogni episodio.
Il piccolo schermo è ufficialmente divenuto il luogo in cui i narratori sfidano i pezzi grossi di Hollywood. C’è Atypical (2017), che parla di un adolescente con un disturbo dello spettro autistico e descrive le sue interazioni quotidiane. (A volte quando le persone parlano non capisco cosa intendono.”) E poi c’è Normal People (2020), che affronta senza pietà i tormenti del primo amore mostrando personaggi con cui è facile identificarsi alle prese con l’ansia e il disprezzo di sé, ma senza esagerazioni.
Più di recente, Steven Soderbergh è stato lodato dalla critica per l’abilità con cui ha trattato la malattia mentale in Unsane (2018), pellicola in cui Claire Foy interpreta una donna tenuta in un ospedale psichiatrico contro la sua volontà e il cui equilibrio è continuamente messo in discussione.
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Per fortuna, diversamente da 20 anni fa, il thriller psicologico di Soderbergh non sembra essere un’eccezione. Suggerisce che molti film e serie TV non ritraggono più la salute mentale in termini semplicistici per favorire la chiarezza del racconto. Dimostra che in fase di scrittura si parla del problema e che si vedono dei segnali.
Come ogni altro tema, la salute mentale è un aspetto della condizione umana che giustifica un maggior approfondimento. Forse oggi per i narratori la questione dovrebbe essere come far sentire meno solo uno spettatore che si riconosce nel tale personaggio. Perché le descrizioni contano. I dettagli contano. Imbroccarla giusta conta. Potrebbe fare la differenza tra lasciare una persona a soffrire in silenzio e incoraggiarla a cercare aiuto.