Mostre 2020: “Divine e avanguardie" a Palazzo Reale
Mostre 2020.Zarine, popolane, madri, operaie, artiste attraversano da protagoniste due secoli di storia della Russia nella mostra “Divine e avanguardie. Le donne nell’arte russa”, dal
“Le donnesono la vite su cui gira tutto”, recita un’epigrafe da Lev Tolstoj all’avvio del percorso, che si apre inevitabilmente con una sala di icone: sì, perché fu una donna, la principessa Olga, a introdurre il cristianesimo come religione di Stato nell’antica Russia. La rappresentazione ieratica e stilizzata dell’icona (tuttora familiare nelle case russe nell’altarino dedicato: “l’angolo rosso o bello”) ricorrerà reinterpretata nell’arte nazionale fino alle avanguardie.
Altre zarine, meno votate alla spiritualità, segnarono la storia russa: ben quattordici sedettero sul trono imperiale, nove delle quali straniere. Come la polacca Caterina la Grande, rappresentata lussuriosa e crudele nelle serie tv (due le ultime versioni, con Helen Mirren e con Elle Fanning), da ricordare per il governo illuminista e l’espansione territoriale: il ritratto di Dmitrij Levitskij nel sontuoso abito da parata con mantello d’ermellino ne suggerisce potere e carattere. Più discreta nella vita di corte accanto al marito Alessandro III, la bellissima imperatrice Marija Fëdorovna, danese d’origine, è ritratta da Ivan Kramskoj con un vestito decorato dai favolosi gioielli Fabergé e il tipico copricapo russo (pure in preziosi): il kokošnik. Inquieta e insicura l’espressione della di lei nuora, la tedesca Aleksandra Fëdorovna, moglie dell’ultimo zar Nicola II, come presaga del destino dell’intera sua famiglia, sterminata dai rivoluzionari. Nel ritratto a figura intera esposto in mostra ammiriamo il gusto, già novecentesco, della serica robe de soir, ornata da due lunghi file di perle e da una stola di pelliccia leggera.
Dmitry Levitsky. Ritratto di Caterina II, 1782
Nella pittura a russa dell’Ottocento apparve anche l’immagine della contadina: nella realtà non ancora affrancata dalla servitù della gleba, nella rappresentazione idilliaca di Aleksej Venetianov ritratta come tipica bellezza slava, bionda e procace. La raffigurazione degli abiti tradizionali contadini come il sarafan, gli stivaletti in feltro detti valenki o gli scialli fioriti dai colori sgargianti, diventò elemento artistico nei quadri di Filipp Maljavin, nella vague del recupero della tradizione etnografica dei primi del Novecento. Affatto realistica, bensì “supronaturalista” (ovvero essenziale nelle sue due dimensioni ma ancora figurativa) sarà invece la rappresentazione di Kazimir Malevič della contadina al lavoro nei campi, soggetto di tre folgoranti quadri in mostra. L’avanguardista del suprematismo aveva compreso che negli anni 30, affermatisi ormai i Soviet, occorreva uno stile pittorico comprensibile alle masse. Nel suo quadro Operaia, eccola la nuova donna sovietica: i capelli corti sotto al fazzoletto, la camicia decorata in colori suprematisti. In mostra, simbolo dell’epoca, anche la “Gioconda sovietica” di Aleksandr Samochvalov: i capelli dal taglio pratico, il volto semplice e aperto e un nuovo indumento: una maglietta aderente a righe verticali banche e nere, che dona molto alla sua figura atletica e formosa. Pittore delle nuove professioni operaie, Aleksandr Dejneka fu un maestro della pittura sovietica, ancora da scoprire: il suo olio su tela Operaie Tessili è un capolavoro di realismo moderno senza alcuna retorica, che restituisce aspetto e anima delle lavoratrici di allora.
Kazimir Malevich, Operaia, 1933
Aleksandr Deyneka, Operaie tessili, 1927
Affascinante la sezione dedicata alla ritrattistica delle donne borghesi tra i due secoli, spesso mogli o figlie di artisti che ben conoscevano la pittura europea, anche mondana, ma amavano declinarla con spirito russo. Intenso il ritratto in nero dell’adolescente Vera, figlia di Il’ja Repin, maestro dell’Ottocento russo; cechoviana nell’attitudine malinconica la cavallerizza Ol’ga, bellissima figlia del celebre pittore Michail Nesterov; reduce dai soggiorni sulla Côte d’azur la moglie di Konstantin Makovskij posa in una mise alla Boldini, languida su una sedia, l’abito in velluto scarlatto. Ed ecco le protagoniste dell’intellighenzia. Anna Achmatova, sacerdotessa della poesia russa, nel ritratto che è un’icona moderna di Kuz’ma Petrov-Vodkin (emblema della mostra) è fissata nella sua bellezza austera, il naso irregolare e la frangetta corta, sullo sfondo l’immagine del marito Nikolaj Gumilëv, fucilato come controrivoluzionario. E ancora la gallerista e direttrice di musei Nadežda Dobičina, ritratta severa con linee estrose da Aleksandr Golovin, scenografo dei Teatri Imperiali e dei Ballets Russes. O la danzatrice allieva di Isadora Duncan in Russia Elena Annenkova, dipinta in un abito di scena dalle linee futuriste dal marito Jurij Annenkov.
Kuzma Petrov-Vodkin, Ritratto della Poetessa Anna Akhmatova, 1922
Natalja Goncharova, Inverno, 1911
I primi anni del Novecento videro affermarsi anche in Russia le donne pittrici con una formazione accademica: tra le prime Zinaida Serebrjakova, apprezzata per le sincere rappresentazioni della vita russa, cittadina e agreste, borghese e contadina. Tuttora popolare la sua serie di ritratti e quadri realizzati dietro le quinte del Teatro Mariinskij, dove l’artista ebbe il permesso di dipingere per tre anni.
Zinaida Serebrjakova, Banja, 1913
Ma dirompente fu l’effetto delle “amazzoni delle avanguardie”, secondo al definizione di un contemporaneo. Di Natal’ja Gončarova, che declinò le avanguardie europee assumendo a fonte l’arte popolare russa, sono molti i quadri esposti: grande la sua notorietà anche in Occidente, dove l’artista lavorò per i Ballets Russes ed emigrò dopo la rivoluzione. Tra cubofuturismo e costruttivismo si mosse Ljubov’ Popova, mentre Olga Rozanova, morta trentenne di difterite, passò con uguale talento dal neoprimitivismo al cubismo al suprematismo, considerata da Malevič la più dotata tra i suoi compagni. Ljubov’ Mileeva, che lavorava nel laboratorio di propaganda politica, si esprimeva invece attraverso folgoranti manifesti a collage, trasposti su tela nel quadro La nuova vita quotidiana. Tre bellissimi abiti in mostra, linee anni 20 con fantasie e colori suprematisti, testimoniano la passione per la moda (e per il costume teatrale) delle artiste dell’epoca, come Aleksandra Ekster, sempre in viaggio tra Mosca e Parigi, che disegnò anche l’uniforme da parata dell’Armata rossa.
Ljubov’ Mileyeva, La nuova vita quotidiana, 1924
Fino al 1932, quando una direttiva del Partito vietò ogni stile e corrente, imponendo il realismo socialista quale espressione ufficiale dell’Unione Sovietica. Adeguarsi o uscire di scena (spesso tragicamente) fu scelta dolorosa anche per le artiste russe, fino agli anni 60. Le note dell’Internazionale socialista in sottofondo, l’esposizione si conclude con l’opera simbolo dello Stato sovietico: la scultura L’operaio e la kolkotsiana, le braccia levate a reggere l’uno il martello l’altra la falce. A realizzarla una donna, Vera Muchina, che vide il suo modello ingrandito a gruppo statuario di 24 metri d’altezza, fuso per la prima volta in acciaio inossidabile e posto sulla sommità del padiglione sovietico nell’Esposizione Universale di Parigi del 1937. Di fronte, a pari altezza, si ergeva il padiglione tedesco con l’aquila nazista in cima. Prefigurazione simbolica di quanto presto sarebbe accaduto.
Il catalogo della mostra è pubblicato da Skira (35 euro).