Antologia di Casa Vogue. Lo Sporthotel di Gio Ponti
La neve caduta in questi giorni è lo spunto per recuperare alcune delle storie di architetture di montagna che Casa Vogue negli anni ha pubblicato.
Del resto è difficile rimettere le mani su una costruzione chiusa da decenni anche solo per aggiornarne le architetture alle odierne normative in tema di riscaldamento, impatto ambientale, sicurezza. E poi, la verità è che è nel generale mutamento del sistema-turismo, nel tramonto, almeno in Italia, del concetto di villeggiatura, questo tipo di strutture ricettive richiedono un impegno economico enorme a fronte di un successo che non sembra garantito. Oggi lo Sporthotel è di fatto un rudere che resiste in mezzo a un bellissimo paesaggio e ormai sembra venirne assorbito. Non è l’unico che, per limitarci all’arco alpino, gli odierni turisti incontrano durante le loro passeggiate. Qual è il destino dello Sporthotel? Diventerà uno sperone di roccia, come quel Duomo di Milano surreale che Dino Buzzati dipinse quasi fosse una cima delle “sue” Dolomiti? A Gio Ponti sicuramente piacerebbe. (Paolo Lavezzari)
Lo Sporthotel Val Martello, in una pubblicità degli anni 30. Foto courtesy Archivio Ponti/Salvatore Licitra, Milano.
È una valle larga, verde, circondata da alte montagne. Il confine con la Svizzera è vicino, né distante è quello austriaco, a nord sul passo di Resia. Salendo per la valle, Circa 30 chilometri dopo Merano, a Morter, si apre l’imbocco della Val Martello, incuneata tra le pendici della catena dell’Ortles-Cevedale, nel parco nazionale dello Stelvio. Il territorio è intatto perché lo sfruttamento turistico della valle è stato molto rispettoso. E la popolazione residente non supera i mille abitanti. Passato il comune di Martello si raggiunge il lago artificiale di Gioveretto, Zufrittsee, creato con la costruzione di una diga nel secondo dopoguerra. Si sale ancora tra montagne giganti. Eccolo, alla fine: Lo Sporthotel è lì, in fondo alla valle, a 2160 metri, abbracciato da una corona di vette che culmina coi 3764 metri del Cevedale. Più in là, i colossi del Gran Zebrù, Monte Zebrù, Ortles. Il luogo si chiama Paradiso del Cevedale, un nome appropriato. La sagoma dell’albergo si riconosce da lontano in mezzo agli abeti. Gio Ponti lo disegna alla metà degli anni ’30. È un Ponti solare. Il tema lo esalta e la sua felicità è trasmessa, oltre che dall’architettura nel suo insieme, armoniosa e sicura, dalla dedizione con cui l’architetto definisce le caratteristiche degli arredi, dei colori, dei materiali, dei rivestimenti, dei tessuti che concorrono a dar vita agli interni dell’edificio.
Foto courtesy Archivio Ponti/Salvatore Licitra, Milano.
Nulla è lasciato al caso. Coautori dell’impresa sono gli storici collaboratori di Ponti, gli ingegneri Eugenio Soncini e Antonio Fornaroli. L’odierno abbandono dell’edificio, chiuso da decenni, si coglie solo da vicino. I muri sbrecciati, le balaustre in legno cadenti, le occhiaie vuote delle finestre senza vetri. Gli interni oltraggiati dai vandali di passaggio. Ponti, come rivelano alcuni suoi appunti, nel progettare lo Sporthotel aveva preso in considerazione le torri del Sestriere, realizzate nei primi anni ’30 da Vittorio Bonadè Bottino, divenute subito famose. Meno estremo nel taglio volumetrico, lo Sporthotel non rinunciava a proporsi a sua volta come “logo” architettonico: un colpo d’ala, una virgola sormontata dal segno netto del tetto inclinato a falda unica. Immagine sintetica e brillante, in linea con il pionieristico clima sportivo di quegli anni.
L’interno dello Sporthotel, in una scatto d’epoca. Foto courtesy Archivio Ponti/Salvatore Licitra, Milano.
L’adozione del tetto a una falda sola, “pultdach”, invece del tradizionale sistema di copertura a capanna, è un principio diffuso negli anni ’30 per svecchiare il repertorio edilizio montano: geometricamente interpretato da Adalberto Libera nel progetto di una “casa per sciatori” (1928), ricorre in varie costruzioni alberghiere altoatesine tra le quali, ancora esistente, lo Sporthotel Monte Pana in Val Gardena (1931) dell’austriaco Franz Baumann. E ripara l’elegante profilo della colonia montana “Rinaldo Piaggio” di Luigi Carlo Daneri a Santo Stefano d’Aveto (1939). Domina poi in due concorsi degli anni ’30: il primo per “edifici politico doganali turistici sui valichi alpini” (1937), il secondo per un “albergo-rifugio alpino”, tema principale dei littoriali di architettura del 1938 che videro la presenza, tra gli altri, di un giovane Marco Zanuso. Il lavoro di Ponti per lo Sporthotel si accompagna a sue preziose note manoscritte, testimonianza della maestria dell’architetto nell’accordare l’involucro strutturale con la dimensione, autonoma e intima, degli interni. Moderno, ma insieme caldo e accogliente, lo Sporthotel appartiene già a quel clima di “attenzione psicologica” che Ponti iniziava a vedere come necessario traguardo per superare certe durezze aspre della stagione razionalista.
Prove di colore per le stanze. Foto courtesy Archivio Ponti/Salvatore Licitra, Milano.
Ecco note riguardanti singoli e calcolati meccanismi, effetti di sorpresa, come il gioco delle lampade, che devono «dondolare ai colpi di sci» o l’ampiezza, inaspettata e festosa, dell’intonazione cromatica: «I colori del pianterreno partiranno dal grigio azzurro e dagli argenti: i colori che si intonano sono i blu, i fragola, i marroni, i gialli. Poiché i legni sono villani occorre tener conto di tutto ciò e del fattore predominante che rappresentano». E ancora: «Coperte a bolli, a righe, comparti, oppure unite di bel colore. Tende alle finestre a righe o quadrettoni. Piatti o tutti di un colore (terraglia) o con bordone colorato. Scodelle del commercio coloratissime». Al tempo della realizzazione lo Sporthotel riceve lodi generalizzate. Opera «esemplare, di assoluta coerenza di gusto» è per Paolo Masera, che lo presenta nel 1938 su “Edilizia moderna”. Marcello Piacentini lo inserisce, unico albergo a fianco di una torre del Sestriere, nella sua rassegna celebrativa, “Vent’anni di attività edificatoria italiana”, pubblicata nel ’41 da “Architettura”. È selezionato da “L’architecture d’aujourd’hui” in un numero monografico sull’architettura alberghiera internazionale (1938). Dopo la guerra, viene riprodotto per la sua “rinomanza” da Mario Cereghini nelle due edizioni (1950 e 1956) di “Costruire in montagna”, bibbia italiana in tema di edilizia alpina. Poi, l’oblio. In “Architettura in Alto Adige dal 1900 a oggi” (1993) si parla del fallimento dell’albergo nel 1946, di una ripresa nei primi anni ’50 e dell’abbandono dopo il 1956. Il motivo va associato alla mancanza di uno sviluppo sciistico dell’area. C’è dell’altro. Lo Sporthotel rimane infatti il frammento di un grandioso piano turistico che avrebbe dovuto creare un paradiso sciistico nelle Dolomiti, collegando Bolzano e Cortina con una rete funiviaria di centosessanta chilometri. Ponti propone soluzioni d’effetto. Sull’onda dell’immagine vincente della struttura funiviaria come fortilizio moderno, l’architetto sogna di utilizzare gli stessi piloni di sostegno del tracciato a fune come postazioni per alberghi, rifugi, ecc. Qui i clienti avrebbero sostato per ristorarsi e prendere il sole. Il sogno è rimasto sulla carta.
Progetto per pilone delle funivie con bar-rifugio. Foto courtesy Archivio Ponti/Salvatore Licitra, Milano.