La storia infinita dei collettivi creativi
I migliori capitoli della cultura e degli immaginari del XX secolo sono inscritti nella storia dei collettivi creativi. Programmi e progetti d’arte o di moda, di
Nel mito c’è senz’altro la Factory di Andy Warhol. Soprattutto la prima, quella al quinto piano di un edificio di East 47th street a Midtown Manhattan, che, tappezzata d’argento da Billy Name, ha rappresentato per molti un incontrastato modello. Un punto d’incontro di figure chiave della scena artistica underground newyorkese come Edie Sedgwick, Viva, Taylor Mead, Ultra Violet, Nico, Ondine o i Velvet Underground, che, reputato il centro più hip dell’universo negli anni tra 1962 e 1968, ha fatto sognare e ispirato tutte le generazioni a seguire tra Europa e Usa. Non ultima la factory di ACNE, un collettivo creativo nato a Stoccolma nel 1996 ed etichettato con una sigla derivata da Associated Computer Nerd Enterprises. Una definizione programmatica sostituita con Ambition to Create Novel Expressions, dopo che il gruppo multidisciplinare fondato da Jonny Johansson, Mats Johansson, Jesper Kouthoofd e Tomas Skoging si è evoluto in un’azienda leader del prêtàporter internazionale, non senza mettere a punto altre idee di successo in ambito editoriale e artistico.
“Jared French, Lincoln Kirstein, José Martinez and Paul Cadmus”, 1945 ca, del trio PaJaMa (Paul Cadmus, Jared French e Margaret Hoening French), esposta nel 2020 alla Galleria Vavassori di Milano.
© COURTESY GALLERIA FEDERICO VAVASSORI, MILANO.
Lavorare in gruppo, dietro un’unica firma, una sigla, una denominazione o definizione poetica o teorica e distintiva, annullando o ridimensionando ogni forma di personale protagonismo, è infatti un fenomeno che puntualmente si ripropone nel tempo. E sta offrendo anche all’oggi non solo spunti di aggregazione, ma anche occasioni di repêchage. Ritrovamenti o riscoperte di riferimenti, modelli e nuovi miti come il gruppo composto da tre protagonisti del realismo magico quali Paul Cadmus, Jared French e Margaret Hoening French, uniti nella vita e nell’arte dietro l’acronimo PaJaMa e collettivamente dediti, negli anni tra 1937 e 1950, a un’originalissima sperimentazione del mezzo fotografico, non senza il contributo di svariati amici artisti, che per loro e con loro hanno posato davanti all’obbiettivo in quelle che appaiono metafisiche e iconiche reificazioni di detriti e rovine, improvvisazioni e surreali interazioni con il mondo disgregato tra le due guerre che li circonda, nonché ideologiche precognizioni di una sessualità che trascende generi e rapporti di coppia.
(Continua)