Antologia di Casa Vogue. La Giudecca, Venezia
Terza puntata della speciale celebrazione diCasa Vogueper il compleanno diVenezia. Dopo la prima, in cui abbiamo ripercorso la genesi e le complesse vicende dei progetti lagunari
Il canale della Giudecca. Foto Spencer Murphy.
Harry Pickering soffriva di un principio di alcolismo. Per questo, sua zia lo portava in giro per l’Europa; per distrarlo, guarirlo. È che anche la zia era particolare; una volta che aveva litigato col nipote era ripartita senza di lui, lasciandolo senza un soldo all’Europa & Regina. Un cameriere aveva avuto pietà di quel ricco ragazzino americano improvvisamente poverissimo, e gli aveva prestato diecimila lire, tutto quel che aveva risparmiato nella vita. Harry torna dopo un paio d'anni e ritrova il suo salvatore, Giuseppe Cipriani; gli restituisce i soldi con altre trentamila lire. Cipriani apre un bar in suo onore, l’Harry’s, dietro Piazza San Marco. Ma la fortuna dei Cipriani continua lontana da lì, anche qui in Giudecca, l’isola che è aperta e chiusa da Cipriani. Da una parte, l’Hotel Belmond (oggi di proprietà inglese, compie 60 anni), con i giardini, la quiete irreale, tropicale; dall’altra, Harry’s Dolci, i tavolini, la vista sulle Zattere, la gente che passeggia. È strana la Giudecca, difficile da capire sin dal nome misterioso; non si sa se abbia a che fare con gli ebrei, i giudizi dei tribunali o che altro. Fino a duecento anni fa, era un’isola grande, vicina a Venezia ma vuota, fitta di monasteri e orti, ville per amori e pomeriggi interminabili. Tra Ottocento e Novecento diventa spazio da riempire per una città in espansione; vengono gli stranieri, per i quali Venezia costa pochissimo, e poi gli imprenditori che aprono fabbriche e, con loro, gli operai.
L’ex Molino Stucky, oggi grand hotel. Foto Spencer Murphy.
Oggi cos’è la Giudecca? Difficile dirlo; Venezia e non Venezia, ciminiere e mosaici, nebbia e tessuti, lusso e popolo. Allo Junghans, che sta più o meno nel mezzo dell’isola, bianco, curve e finestroni, c’era la più grande fabbrica di orologi del mondo. Se ne facevano anche millecinquecento in un giorno. Durante la guerra, era stata riconvertita per produrre bombe; quattromila spolette ogni ventiquattrore. Con i suoi settecento addetti, tra il 1950 e il 1970 è stata la fabbrica più grande di Venezia, tra la chiusura dell’Arsenale e la sua. Adesso ci sono le case per i veneziani, qualche turista, qualche ufficio, e anche un teatro, in quello che era stato il bunker antiaereo. La Dreher, secondo me, è più bella ancora, più inaspettata, per niente veneziana, tutta di mattoni, rossa, Manchester, Inghilterra, una canzone dei The Smiths, pinnacoli infiniti, corridoi stretti, scorci improvvisi. La birra non si fa più. Ma dentro agli spazi enormi ci sono gli artisti, soprattutto Fabrizio Plessi, col suo studio meraviglioso, poi la Galleria Rizzo, lo Spazio Punch, Augusto Maurandi, Carolina Antich. Negli ultimi vent’anni, la Giudecca è diventata luogo d’arte, alla Dreher e dappertutto; in calle San Giacomo, dove stanno Serena Nono e Nicola Golea, a La Palanca, dove sta Geoffrey Humphries, e poi nei campi, nelle terrazze, sulle rive, vicino ai ponti, tra vetrine e atelier, tavolozze e iPhone. E luogo borghese perché, lentamente, la Giudecca è diventata residenziale.
Nella Casa dei Tre Oci. Foto Spencer Murphy.
Ma è un posto che contiene, ancora, tante contraddizioni, tante cose. La più importante, probabilmente, è la Chiesa del Redentore. La struttura palladiana è stata costruita nel 1577, quando è finita una terribile pestilenza, cinquantamila morti in tre anni. Facciata bianca, sagrato davanti all’acqua, pace, silenzio. Non è sempre così. Ogni anno, il Redentore, il terzo sabato di luglio, è la festa dei veneziani, solo dei veneziani, e tutto il canale è gremito di barche, e tutta la fondamenta invasa dai tavolini. Qui è una vera tradizione, tra alleanze e litigi; la gente segna per terra il proprio nome con il gesso, per delimitare lo spazio in cui collocherà il proprio tavolo, le proprie panche. Lo fa settimane prima, per prendere i posti migliori, controllando sempre che nessuno glieli porti via e che non piova. Per giorni prepara il menu; la tradizione vuole almeno anatra, sarde in saor, ossia insaporite con la cipolla, e bovoleti, le lumachine di terra. Poi viene la notte, i fuochi d’artificio. Nei giorni del Redentore, alla Giudecca si può arrivare a piedi, perché un lungo ponte votivo collega l’isola alle Zattere. Per il resto dell’anno, la Giudecca è staccata, anche se un vaporetto va, avanti e indietro, tutta la notte. La Giudecca è, prima di tutto, una lunghissima fondamenta che accompagna il Canale, che si vede. Battuta dal vento e dal sole, dall’acqua e dai pensieri.
Il giardino di Palazzo Fortuny. Foto Spencer Murphy.
Subito dopo l’Hotel Cipriani, c’è la Casa dei Tre Oci (1913). Il pittore Marius Pictor (Mario De Maria, ndr), bolognese, massone, aveva perso la figlia Silvia. Erano rimasti in tre, in quella famiglia disperata; lui, la moglie, il figlio. Sono loro i tre occhi, ossia le tre finestre sulla facciata, che danno il nome al palazzo. Silvia è rappresentata dalla trifora che ci sta sopra, più vicina al cielo. Oggi, la casa che ha ospitato Grubicy, Giorgio Morandi, Dario Fo, Lucio Fontana, Renzo Piano, è uno spazio per mostre fotografiche. A me piace molto l’Ostello, subito dopo, un vecchio deposito di granaglie con la sua facciata razionale, rosso-arancione, riconvertito negli anni Sessanta, in tempi hippie di viaggi e avventure. L’interno è ristrutturato da poco, lusso pop. Dal ponte lungo, si gode forse la vista più bella, più caratteristica, più attesa, due linee di case e barche, la laguna dietro, che comincia, si spalanca, va dove vuole. La fondamenta procede. C’è la chiesa più dolce, Sant’Eufemia, dove non va nessuno. C’è la Fortuny. Mariano Fortuny y Madrazo era un giovane pittore spagnolo, povero, affascinante; aveva preso una stanza in centro a Venezia, a Palazzo Pesaro Orfei. Oggi, quel palazzo porta il suo nome, Fortuny, forse è la più bella e particolare sede espositiva veneziana. Quando Fortuny era andato ad abitarci, invece, era una banlieue; nel povero Ottocento quell’edificio maestoso era la casa di centinaia di poveracci che l’avevano sventrato, riempiendo i saloni di pareti divisorie per fatiscenti monolocali sovraffollati. Fortuny l’aveva ricomprato, pezzo a pezzo, per riportarlo all’antico splendore, man mano che il suo business cresceva. Non grazie alla pittura, ma grazie ai suoi tessuti, che tutte le dive indossavano, Isadora Duncan ed Eleonora Duse, la più importante ballerina, la più importante attrice. Anche la fabbrica dei tessuti era lì, dove adesso ci sono le mostre, ma si è spostata alla Giudecca, e c’è ancora, con la scritta che si vede dalla fondamenta, l’atelier che mostra i suoi colori infiniti.
Il portone di Villa Hériot. Foto Spencer Murphy.
Subito dopo, c’è lo Stucky, oggi albergo di lusso. La storia degli Stucky è grandiosa e triste. Il primo, Hans, arriva nella Venezia asburgica, nel 1841, da Münsingen, vicino a Berna. È stufo di far parte di una famiglia di armaioli; vuole diventare mugnaio e avvia l’attività. Il figlio, Giovanni, diventa l’uomo più ricco di Venezia, e costruisce, nel 1884, quel molino sulla riva; ci lavorano oltre mille persone, duemilacinquecento quintali di farina al giorno. Giovanni, però, muore il 21 maggio 1910. Va a prendere il treno a Santa Lucia quando un tale Bruniera, ex facchino al Molino, si informa degli orari, lo aspetta, e, quando lo vede, alle spalle, con un rasoio, gli taglia la gola. Tocca a Giancarlo, la terza generazione. La guerra, il fatto che fosse ancora cittadino svizzero e non avesse accesso ai rimborsi dello Stato italiano, la concorrenza, la crisi del ’29, amici come Giuseppe Volpi e Vittorio Cini, i grandi possidenti veneziani, che d’improvviso non gli fanno più credito, e tutto finisce con un suicidio. Dietro lo Stucky, comincia un’isola dove non va nessuno; si chiama Sacca Fisola, è stata interrata nel Novecento per costruire case popolari. È una zona ruvida, un tempo malfamata. Al fondo, però, ci sono gli impianti dove i veneziani vanno ancora a giocare a calcetto, a tennis. Soprattutto, c’è la prima piscina pubblica di Venezia. È intitolata ad Amedeo Chimisso, morto con tutta la nazionale italiana di nuoto nel ’66, in un incidente aereo a Brema, una Superga di cui non si parla mai. Prima di quella piscina, i veneziani imparavano a nuotare in canale, specialmente in quello della Giudecca, perché dall’altra sponda, dove ci sono le Zattere, c’era la piscina Passoni, uno spazio recintato nell’acqua, con bagni e spogliatoi, dove i giovani si buttavano per diventare campioni.
La Giudecca è fatta così, di graffi. In mezzo ai palazzi lussuosi, ci sono il Milan Club, la parrucchiera Cinzia, il distributore di benzina per le barche, la neonata libreria Marco Polo, i ristoranti belli, nuovi ma autentici. Bisogna andarci dentro, perdersi. Al carcere femminile, ogni volta, la polizia arriva in barca a portare le detenute, a sirene spiegate. Alla Duca d’Aosta ci sono i bambini in fila per le elementari. Nei campi, giocano a calcio sotto i panni stesi, gli zaini come porte. Ai Santi Cosma e Damiano, dove un tempo la Herion fabbricava tessuti, oggi ci sono un incubatore per le imprese, delle botteghe e un chiostro incantevole. C’è l’Archivio dedicato a Luigi Nono, musicista, che sull’isola viveva. Ma anche dietro al Redentore si spalancano sterminati orti gestiti dai frati. E ci sono altri giardini, infiniti, silenziosi, che si affacciano sulla laguna. Gli Hériot erano una ricca famiglia francese, una tra le tante venute qui; si erano costruiti una villa meravigliosa, bizantina, affacciata sulla laguna. Nel 1947, la moglie l’ha lasciata al Comune, con l’obbligo che restasse pubblica. Lo è ancora, nonostante tutto.
Lo scalone di Villa Hériot. Foto Spencer Murphy.
E poi c’è l’area della ex Scalera, con la sua storia che nessuno conosce. C’è stato un tempo, infatti, in cui la Giudecca era la Hollywood italiana. È il 1943, l’Italia si è divisa in due, Mussolini si trova senza Cinecittà e la rifà qui, in piena Repubblica di Salò. Lo chiamavano il Cinevillaggio, perché era uno spazio piccolo rispetto ai fasti romani. Quasi una ventina di film in due anni. Di qui passavano i divi dell’epoca. Due su tutti: Valenti e la Ferida, quelli di “Sanguepazzo” (film di Marco Tullio Giordana, 2008, ndr). La loro storia è ripercorsa anche in un volume di Odoardo Reggiani, edito da Spirali. Così, gli operai, le famiglie numerose, all’improvviso vedevano in riva, a bere l’aperitivo, i più grandi divi del tempo, quelli che vedevano nelle riviste, che sognavano di diventare. Osvaldo Valenti e Luisa Ferida, poi, furono uccisi dai partigiani. Non qui. Ma qui ce n’erano tanti, di partigiani. Isola rossa, la Giudecca. E pericolosa, un tempo, piena di contrabbandieri e traffici. Isola di popolo. Lo è tuttora. Nel 2015, quando il Demanio ha indetto un bando per assegnare Poveglia, un’altra isola della laguna, in concessione per 99 anni, alla Giudecca è nato un movimento perché l’isola restasse dei veneziani, non diventasse l’ennesimo albergo. Quote da 99 euro, migliaia di aderenti da tutto il mondo. “Poveglia per tutti” continua a lottare, tra ricorsi e prospettive, perché l’isola resti di tutti.
Cantiere. Foto Spencer Murphy.
Uno spirito fiero. Lo si ritrova ai cantieri, il posto più bello e inaspettato dove perdersi, proprio al centro dell’isola. Lì, ci sono ancora quelli che costruiscono, riparano le barche, le ricoverano per l’inverno. C’è Gianfranco Vianello, che tutti conoscono come “Crea”, uno dei grandi vogatori veneziani, dodici volte vincitore della regata più importante, la “Storica”, che continua a costruire barche e insegna ai ragazzi, anche a quelli che vengono da lontano, dal Bangladesh, dall’Egitto. C’è un ristorante in cima a una scala, una vista imperdibile, sulla laguna. Sono belle le botteghe, con le etichette sulle vetrine. Quicksilver, Power Up, Mercury, Johnson, altri produttori di motori, di scafi. È questa la Giudecca che mi piace; sospesa, irriducibile tra i Bellini e i distributori di benzina, le mostre di LaChapelle e le pizzette dei panifici, l’atelier d’arte e quello che vende i rasoi Philips. È bello andare dove non va nessuno. Ritrovare la Venezia più Venezia, la grandezza e il dettaglio, l’acqua e il cielo che portano desideri. All’altezza della chiesa delle Zitelle, un bell’edificio sulla fondamenta, c’è una calle e un bar che pare uscito dagli anni Ottanta, con le insegne luminose. Ci sono due uomini, di fuori. La faccia scura di chi vive all’aperto. Maschi, marinai. Bevono, fumano. «Vorrei andare a vivere in Irlanda». «No, troppo freddo, troppo umido». «Come qua in Giudecca». «È diverso». No, in Irlanda non ci andranno mai.