Casa Vogue: Collezionismi Rizzoli

C’era una volta Mario Praz. Chi si è avventurato a leggere il suo “La casa della vita” ricorderà lo sfarzo (nell’esposizione) e lo sforzo (nella lettura)

di quel catalogo ragionato che è il testamento alla sua grande passione: il collezionismo. Le raccolte eclettiche del saggista e critico – “onnivore” come si dice in gergo – contemplano mobili stile Impero (che già ai tempi suoi erano ben poco à la page) e oggetti di ancora minor conto: dipinti d’interni; specchi; orologi; ventagli; cere; svariati cosiddetti conversation pieces. Lui stesso ammetteva: «Nonostante le loro ottime patenti storiche in cui appaiono i nomi di Cellini e di tanti altri artisti di vari Paesi, nonostante questo preclaro pedigree, quella delle cere non è più considerata un’arte vera e propria». Che piaccia o no, con le sue battaglie culturali per definire il collectible nel nome del gusto, Praz è il padre di tutti i collezionisti moderni. 
«Era come Grey Gardens, ma cadeva a pezzi». Così Richard Christiansen, fondatore della agenzia di pubblicità Chandelier Creative, ricorda la prima volta che vide la casa di Eagle Rock, a Los Angeles. Acquistata Flamingo Estate nel 2013, Christiansen è partito per il mondo con gli architetti Karl Fournier e Olivier Marty, collezionando oggetti «che avessero una storia». La casa ospita una formidabile collezione che va da Andy Warhol a David Hockney.

© Kate Martin

D’altra parte, una decina d’anni fa il regista, scenografo e collezionista Pier Luigi Pizzi, a una conferenza alla Fondazione Roberto Longhi, si domandava: collezionisti si nasce o si diventa? «In qualche modo, istintivamente, siamo tutti nati collezionisti», argomentava, «non fosse altro che per imitazione. Il ragazzino raccoglie figurine, come i suoi compagni. Si raccolgono conchiglie sulla spiaggia quando si è molto piccoli». Un discorso in linea con l’attitudine prazzesca, che riconosce nel consumismo un mezzo di costruzione dell’identità.

Lasciata New York per Sydney, dal loro bungalow anni 60 Tamsin e Patrick Johnson – lei interior designer, lui nella moda con il suo brand P. Johnson – godono di una vista unica su Tamarama Bay. La casa, vista e comprata in 24 ore – «la proprietaria vi abitava da 50 anni; nulla era cambiato da quando era stata costruita», dice Tamsin –, è stata aperta divenendo un luminoso open space in pieno accordo con il panorama. «Amiamo il mare, qui l’estate è più lunga e la vita più calma». Alle pareti la coppia ha raccolto opere di artisti australiani odierni, ma anche arte astratta europea degli anni 30 e fotografie.

© Kate Martin

Ecco, gli oltre trenta creativi e collezionisti ritratti nel volume illustrato “More Than Just a House: At Home with Collectors and Creators” (Rizzoli New York, 2020) – farcito d’interni e proprietari più o meno rinomati, tastemaker, trendsetter – sono a tutti gli effetti dei collezionisti moderni: anche se immaginarli figli dell’erudito italiano, molti così giovani e bohémien, in quelle loro case illuminate dal sole e inebriate di brezza marina, pare francamente un po’ ardito. In ogni caso, il loro collezionare “sportivo” oggetti anche interessanti in sé, ma che se mescolati acquistano tutta un’altra aura, è quel che ha affascinato l’autrice del libro, Alex Eagle: «Il progetto», dice, «è nato dalla sensazione che provo ogni volta che entro nella splendida casa di un amico. Mi guardo attorno e vorrei poter registrare la mia esperienza». Eagle – una bella londinese bruna del genere “acqua e sapone”, come si diceva una volta, che ha fondato un omonimo concept store a Soho – in questo suo primo volume mette in scena una comunità globale in cui i famosi sei gradi di separazione si riducono a due: «Sono tutti amici o amici di amici, in qualche modo connessi a me, ma li ho scelti perché nelle loro case c’è qualcosa di speciale».

A Venice Beach dal 2010, Karina Deyko e David de Rothschild hanno trasformato una ex officina meccanica nell’album dei ricordi della loro relazione. Attrice che ama Venice perché «è distante da Hollywood», è stata lei a curare la sistemazione degli spazi. «Le pareti bianche sono come una tela su cui provo a comporre le differenti cose che mi attraggono e colleziono».

© Kate Martin

Lei stessa da ciascuna ha, metaforicamente, portato via un pezzetto, piccolo o grande: «Può essere una marca di tè, un particolare bicchiere per metterci la limonata, il colore rosa delle pareti tinte a calce». Figlia di un mercante d’arte e cresciuta a West London, in una classica townhouse con giardino, ricorda pile di libri e quadri ovunque, «il leitmotiv della mia vita». E aggiunge: «Penso di aver collezionato sin da bambina. S’inizia dalle piccole cose: ditali, francobolli, cartoline. Poi ci si affina. Ricordo che vedendo per la prima volta una sedia di George Nakashima, al mercato delle Pulci di Parigi, rimasi senza parole». La cerchia di personaggi che ha qui riunito è fatta di anime affini, sparse per il mondo: in un riad a Marrakech o in una villa in Toscana, a New York o a Londra. E se qualcuno di loro – come Craig Robins, co-fondatore di Design Miami, o Indrė Šerpytyė, che accoglie nel suo castello scozzese opere di sole donne – può dirsi collezionista in senso tradizionale, per molti altri circondarsi d’oggetti pieni di significato è, più che una missione, uno stile di vita.

La fotografa Indré Šerpytyté nel salone del castello in Scozia dove, con il marito David Roberts colleziona opere realizzate solo da artiste. È di Stella Vine il grande ritratto di Kate Moss, sopra il camino.

© Kate Martin

(Continua)

Leggete l’articolo integrale di Marta Galli e sfogliate il servizio fotografico di Kate Martin sul numero di aprile di Casa Vogue, in edicola con Vogue Italia

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