"Zero", la serie tv: intervista ad Antonio Dikele Distefano

Quando ha ideato Zero, la nuova serie Netflix che debutterà il prossimo 21 aprile, lo scrittore italo-angolano Antonio Dikele Distefano aveva un preciso intento politico: normalizzare.

«Far sì che sia normale che uno come me esista», dice, «che il protagonista Giuseppe Dave Seke possa recitare un giorno ruoli diversi. Che nessun ragazzo di seconda generazione debba prendere schiaffi da un poliziotto. Che nessuno debba incendiare una periferia». Tratto dal romanzo di Distefano Non ho mai avuto la mia età (Mondadori, 2018), la serie racconta di Omar, giovane cresciuto nella periferia di Milano (papà a casa e madre via, come accaduto ad Antonio) che disegna fumetti manga con protagonisti neri e ha il superpotere di farsi invisibile, esattamente come s’è sempre sentito. Per un cast fatto al novanta per cento da ragazzi italiani di origine africana. Tutti diversi. Tutti annodati.

Nella serie lo stacco tra i ragazzi bianchi e borghesi e i protagonisti è nettissimo.
Per quel che mi riguarda, è vita quotidiana. Personalmente, non ho mai avuto molte amicizie perché faccio fatica a relazionarmi con certi universi paralleli. Mi trovo meglio con i miei simili, con chi condivide il mio vissuto. Al di là della provenienza, ovviamente. 

Quali sono i codici di appartenenza?
Per scrivere la serie io e i sette protagonisti ci siamo chiusi in un hotel di Roma per tre mesi, a parlare. Abbiamo avuto tutti una vita difficile. Ci siamo ritrovati grandi mentre i coetanei vivevano la loro adolescenza.

Cos’altro vi accomunava?
Il fatto di aver imparato a divertirci senza spendere soldi, per esempio. L’aver cambiato tutti decine di case. O aver dormito gran parte della vita su di un divano per fare posto ai fratelli più piccoli nei bilocali in affitto, a minaccia di sfratto, che i nostri genitori potevano permettersi. Uno degli attori, Richard Dylan Magon, ha fatto tredici traslochi. Io, sedici. 

Qual era la parola che tornava più spesso?
L’espressione “anch’io”.

E il sentimento che aleggiava?
La voglia di rivalsa. Che non c’entra col tranello del successo però: è la rivalsa di chi non vuol rivivere la delusione dei genitori, di chi è arrivato e ha dato tutto sotto la minaccia di perdere il permesso di soggiorno se perdeva il lavoro, o di madri scambiate per prostitute. È la rivalsa della dignità, di una casa, di un terreno solido per chi verrà.

Sua mamma è tornata in Africa quando lei aveva diciassette anni. Anche questo è un altro “anch’io”?
Un genitore che è mancato c’è sempre. Nel mio caso, prima è stato assente mio padre, per lavorare. E poi mia madre s’è ripresa la sua vita una volta che ci ha visti economicamente al sicuro. Con papà parliamo tantissimo di identità, di Muhammad Ali, di Sonny Liston, dell’Angola. Condividiamo l’idea che la storia della comunità nera sia una vicenda collettiva, e che ci alzeremo tutti insieme perché tutti insieme siamo stati messi in ginocchio. Zero vuole essere un tassello. Anche perché il futuro dell’Italia dipende da quei ragazzi chiusi in una stanza di Roma, tre mesi fa, a dirsi “anch’io”.

La locandina di Zero

In apertura: alcuni dei protagonisti della serie “Zero” di Antonio Dikele Distefano (1992), fondatore della società di comunicazione Cantera, il cui prossimo romanzo, “Qua è rimasto autunno” (Mondadori) uscirà a fine anno. Sul bidone, Daniela Scattolin nel ruolo di Sara. Al centro, in piedi da sinistra: Madior Fall nel ruolo di Inno, Richard Dylan Magon nel ruolo di Momo, Haroun Fall nel ruolo di Sharif. Accovacciato, Giuseppe Dave Seke nel ruolo di Omar/Zero.

Da Vogue Italia, n. 847, aprile 2021

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