C’è chi ulula sul palco (Frances McDormand), chi si mette a twerkare (Glenn Close) e chi fa la corte a Brad Pitt (Yuh-Jung Youn): le poche,
Una donna promettente
Il primo riconoscimento della serata va ad un talento a 360°: Emerald Fennell può fare tutto. Attrice (è Camilla in The Crown), regista (il film d’esordio Una donna promettente le è valso 5 nomination agli Oscar), sceneggiatrice (la prima statuetta dell’Academy se l’è portata a casa proprio al debutto), ha girato in 23 giorni questa storia di abusi, mancanza di consenso e “vendetta rosa” mentre era al settimo mese di gravidanza e vola in piena pandemia dall’altra parte dell’oceano per stringere in mano il meritatissimo riconoscimento, altrettanto incinta e in sneakers. Precisa di non essere una Wonder Woman, eppure ci prova, tra nausee mattutine e caviglie gonfie.
Emerald Fennel e Carey Mulligan sul set del film
© Merie Weismiller Wallace
Chi osa dire che il film ha preso “solo” un premio non ha capito un bel niente di un progetto senza retorica né buonismo, un rischio per tutti (inclusa la produttrice Margot Robbie). La storia è valsa alla protagonista Carey Mulligan la corsa nella categoria Miglior attrice protagonista e resta di per sé una grande vittoria.
Il film, che ancora non ha una data di distribuzione in Italia, ha subito conquistato pubblico e critica d’oltreoceano perché Cassey (la Mulligan) è una ragazza come tante, con un futuro brillante come medico e una vita piena di passioni e interessi. Ma poi tutto finisce in tragedia e quella violenza volge al passato tutti i suoi meriti. Lei non riesce a dimenticare e si fa giustizia come può, senza mezze misure.
Per descrivere il suo film, Fennel ha usato l'espressione "popcorn al veleno". Le abbiamo chiesto se continuerà a fare film dello stesso tipo. "Non lo so", ha detto. “Io speravo di fare qualcosa che la gente volesse vedere. In parte sembra un film leggero, femminile ma tratta temi complessi e oscuri. Penso che anche in futuro farò film dello stesso genere"
Quando prende la sua statuetta, Fennel rimane sbalordita dal peso del suo Oscar. “È molto pesante, forse ho bisogno di andare in palestra o forse posso usarlo proprio l'Oscar come un peso. Finora ne avevo toccato solo uno finto”
Nomadland
Statistiche alla mano, Nomadland ha sbaragliato tutti, come da pronostici. Dal 29 aprile nelle sale italiane e dal 30 aprile su Star all’interno di Disney, è già arrivato nella stagione dei premi come super favorito, già dalla proiezione alla Mostra Internazionale del cinema di Venezia.
Anche in questo caso vanta il lavoro certosino e a tutto tondo di un’artista, Chloé Zhao (Leone d’oro alla Carriera proprio nel 2020 e Leone d’oro al film), che lo ha sceneggiato, diretto, montato e infine coprodotto. Artefice del suo destino, questa minuta forza della natura dalle lunghe trecce e dagli occhi vibranti, è un’altra di quei talenti in sneakers sul red carpet. Brilla di luce di propria, senza diamanti e diventa la seconda donna in quasi cento anni di Premi Oscar a vincerne uno dietro la macchina da presa.
E insieme a lei Frances McDormand conquista il terzo Oscar della carriera (nella top ten delle più premiate agli Academy Awards la batte sola la divina Katherine Hepburn con quattro statuette). Lavora per sottrazione non si nega agli applausi e ai riflettori con finta modestia, ma continua ad incarnare quel genio creativo misto a sregolatezza che le impedisce di conformarsi allo showbusiness. Gioca con le sue regole, sale sul palco spettinata, con la ricrescita, senza make up e non tira fuori alcun foglietto con ringraziamenti finto-spontanei. Vuole che tutta l’attenzione sia e resti puntata sulla storia della pellicola, una metafora della precarietà in cui il mondo vive. “Sei senzatetto”, fa notare una bambina al suo personaggio, che risponde: “No, sono senza casa”. E basta questo breve dialogo a racchiudere tutta la storia – vera – tratta dall’omonimo libro di Jessica Bruder, un viaggio on the road su un camper, da nomadi appunto, per rimettere insieme i pezzi di una vita sgretolata e trovare un posto nel mondo.
The father
© Movieplayer
Il secondo premio della serata, in ordine cronologico durante la cerimonia, va al regista esordiente francese Florian Zeller per la sceneggiatura di The Father, ancora inedito in Italia, un gioiellino spiazzante sulle dinamiche familiari sfalzate da una malattia feroce, la demenza, e logorate da un quotidiano estenuante. Per mettere in scena questo racconto intimista scendono in campo due giganti, Olivia Colman (già Premio Oscar e qui in corsa con una nuova nomination) e sir Anthony Hopkins (che per il ruolo conquista l’ambita statuetta a dispetto di ogni pronostico che dava invece per favorito un riconoscimento postumo a Chadwick Boseman).
La storia, tratta dalla piece teatrale Il padre, mostra un insolito punto di vista perché il pubblico si trova di fatto nella mente del protagonista e non riesce più a distinguere, proprio come lui, la realtà.
E non solo…
Questi tre film hanno in comune storie “ordinarie”: non sono biopic di attivisti, leggende della musica o eroi in un determinato campo. Sono uomini e donne come tante, il cui destino ha fatto cambiare traiettoria al corso degli eventi. Succede qualcosa di simile ad un altro dei titoli applauditissimi in questa stagione cinematografica, Minari (dal 5 maggio su Sky Cinema Due), che ha regalato alla 73nne coreana Yuh-Jung Youn la statuetta come miglior attrice non protagonista.
È lei la nonna del film, che mostra con evidente sconcerto le differenze culturali tra il suo Paese d’origine e quello d’adozione della famiglia, gli Stati Uniti. Ancora una volta una vicenda specifica, particolare, “piccola”, diventa universale, quasi a porgere uno specchio a chi la guarda e forse in passato si è voltato dall’altra parte.