Hollywood e Black Lives Matter: come è cambiato l’approccio all’inclusione?

Avevo 19 anni quando ho deciso scientemente di limitare la quantità di film e di serie TV che mi angosciavano. Sostenere i neri di talento era

sempre stata una mia priorità, ma non a spese della mia salute mentale. Tuttavia, 12 anni schiavo di Steve McQueen (2013) mi incuriosiva e sono andata a vederlo una sera con tre amici.

Questo dramma biografico coraggioso e visivamente forte mette in luce verità importanti sulla tratta degli schiavi, sulla colonizzazione e sugli inimmaginabili traumi inflitti a milioni di afroamericani ridotti in schiavitù. Il successo del film è dimostrato dai 180 milioni di dollari di incassi al botteghino. Ma mentre i miei amici si dedicavano a un’analisi approfondita del film, io non riuscivo a smettere di pensare a una scena in particolare, quella in cui Patsey, la schiava afroamericana interpretata da Lupita Nyong’o, viene punita con una frusta. Le sue urla mi affliggevano. Una donna dalla pelle scura, con la mia stessa carnagione, sottoposta a una tortura simile era una visione quasi inguardabile per me.

12 anni schiavo (2013)

© PictureLux / The Hollywood Archive / Alamy

Dopo l’enorme successo del film di McQueen, a Hollywood sembra esserci stata un’accelerazione di progetti che ottengono il via libera dai ranghi più alti (spesso non black), ma che spesso riducono l’identità nera a un’esperienza monolitica. Guardare pellicole dove la finzione si confonde con la realtà – di recente c’è sempre di mezzo la brutalità della polizia – può essere estenuante per la comunità nera quando ciò diventa ripetitivo. Anche noi meritiamo di vedere storie che siano una tregua dal mondo reale.

Prevedibilmente, le trame scritte da sceneggiatori non neri tendono a essere impregnate di dolore o ad affidarsi a caratterizzazioni da cliché dovute in gran parte a un’enorme disparità nelle stanze degli autori (nel 2019, il numero di sceneggiatori appartenenti a minoranze negli Stati Uniti è aumentato di appena il due per cento). “Dobbiamo considerare che questi racconti – dei neri che soffrono e dei nobili bianchi che li salvano – sono di conforto per l’anima di un mondo che sta ancora cercando di fare i conti con l’orribile vergogna della schiavitù, del colonialismo e del razzismo”. dice la critica cinematografica e televisiva Ellen E. Jones a Vogue. “Nello stesso tempo, questi autori vogliono salvaguardare il privilegio sociale ed economico che queste pagine buie di storia hanno concesso loro”.

Quando le storie finiscono in mano a persone al di fuori della comunità black, il discorso non solo diventa regressivo ma anche pericoloso. Continua Jones: “Vediamo l’umanità in persone di qualsiasi provenienza ed estrazione sociale perché il cinema e la TV ci hanno insegnato a farlo. Non appartenere a minoranze – e spesso avere pochi contatti significativi con persone di diverse provenienze – implica che gli autori non neri sono costretti ad affidarsi a stereotipi e a ritratti bidimensionali. Questo rende inevitabile la domanda, vedremo mai un’industria che guida l’inclusione – davanti e dietro la macchina da presa?

Il movimento Black Lives Matter e la sua visibilità nell’industria dell’intrattenimento

L’assassinio di George Floyd a marzo 2020, dopo che un poliziotto gli ha tenuto il ginocchio premuto sul collo per quasi nove minuti, è stato il catalizzatore di una serie di proteste in tutto il mondo. Le disturbanti immagini della sua morte che sono circolate sui social hanno provocato giornate di indignazione e ancora una volta i protocolli delle forze dell’ordine degli Stati Uniti sono stati messi in dubbio. I feed di Instagram sono stati inondati da infografiche che giuravano di sostenere la lotta al razzismo e le aziende hanno promesso di riflettere sui loro sistemi di assunzione e le loro strategie per la diversità. All’interno di questo spettro più ampio, si è puntata una lente d’ingrandimento su secoli di gatekeeping nell’industria creativa.

Lydia West in It's a Sin (2021)

© Album / Alamy Stock Photo

Lo scorso giugno, più di 4mila creativi – tra essi, l’attrice e sceneggiatrice Michaela Coel e la destinataria di quest’anno del premio BAFTA alla carriera per contributi al cinema britannico Noel Clarke – hanno esortato l’industria a dare una mano a sconfiggere il razzismo e ad assumere più persone nere e di colore in tutti i settori. “La presenza black sullo schermo sta umanizzando l’esperienza nera”, dice a Vogue Lydia West, star della miniserie televisiva It’s A Sin. “Noi neri meritiamo di raccontare le nostre storie ed esperienze non più attraverso la visione dei bianchi ma mostrando un ampio spettro di sfumature e umanità – gioia, amore, dolore e rabbia, senza limitazioni”.

Yvonne Orji as Molly Carter and Issa Rae as Issa Dee in Insecure (2020)

© HBO/Kobal/Shutterstock

Intanto, una delle principali pioniere della TV, l’attrice e sceneggiatrice di Insecure Issa Rae, ha detto a Vogue che sarebbe curiosa di vedere “quali progetti sarebbero scartati” sulla scia del BLM. Non è insolito che gli attori neri e di colore lascino il suolo britannico per lavorare negli Stati Uniti, dice Jones. “È un vero peccato, perché qui non sono sostenuti nella loro carriera e non gli vengono offerte opportunità.”

La rappresentazione sullo schermo nel 2020 e oltre

Avanti veloce al 2021, sei anni dopo l’invenzione da parte della sostenitrice della diversity April Reign dell’hashtag virale#OscarsSoWhite (un movimento che ha evidenziato la mancanza di rappresentazione all’87sima edizione degli Oscar), quando ispirandosi al regolamento del British Film Institute del 2019, l’Academy of Motion Picture Arts and Scienceha introdotto dei requisiti di eleggibilità per il miglior film nel rispetto della diversità. I nuovi criteri saranno vincolanti a partire dal 2024, e i film candidati dovranno rispettare almeno due dei quattro standard richiesti, tra cui: ‘un attore appartenente a una minoranza in un ruolo principale’ e trame ‘incentrate su donne o su membri della comunità LGBTQ+, o su gruppi etnici o su disabili”. Intanto, Regina King quest’anno ha fatto la storia presentando il suo primo film da regista Quella notte a Miami… al Festival di Venezia, facendone il primo film diretto da una donna afroamericana a essere selezionato al festival (ha anche ottenuto tre nomination alla 93sima edizione degli Oscar appena conclusasi).

Quella notte a Miami (2020)

© Pictorial Press Ltd / Alamy

Nel 2021 il riconoscimento di talenti neri britannici si è dimostrato alquanto proficuo nei media mainstream. Il ritratto fatto da Daniel Kaluuya del leader delle Pantere nere Fred Hampton in Judas and the Black Messiah gli ha procurato quest'anno un Oscar come Miglior Attore Non Protagonista, un BAFTA e un Golden Globe. L’astro nascente Bukky Bakray è una luce di speranza per i giovani attori emergenti, avendo ottenuto due nomination ai BAFTA e una vittoria all’inizio di questo mese, tra cui il Rising Star Award.

Sul piccolo schermo, si stanno affidando spazi in prima serata a star versatili come la comica americana nigeriana Ziwe Fumodoh. La sensuale serie in costume di Shonda Rhimes Bridgerton, con un cast meravigliosamente variegato, ha battuto i record di Netflix e raccolto 82 milioni di spettatori. Certamente, anche se alcuni lenti cambiamenti ci sono – “Penso che vedremo altre rappresentazioni idealistiche del mondo in cui viviamo,” dice Rae a Vogue – è indubbio che c’è ancora del lavoro da fare.

Il rapporto annuale del Writers Guild of America West (WGAW) del 2020 ha rivelato che dal 2019 al 2020 il tasso di assunzione di sceneggiatori sottorappresentati era lievemente aumentato, ma i ruoli erano spesso di breve durata. Inoltre, le persone black costituivano appena il 35% degli sceneggiatori televisivi (solo il 5% in più rispetto all’anno precedente), a indicare che il grosso della scrittura per la televisione è ancora in mano ad autori bianchi.

I creativi appartenenti alle minoranze (se sono abbastanza fortunati da riuscire a finanziare progetti indipendenti) stanno cominciando a ricavarsi i propri spazi. La sedicenne apripista Marsai Martin, produttrice esecutiva e attrice, ha di recente rivelato che avrebbe lavorato a una serie comica – di cui Disney ha ordinato l’episodio pilota – su un’adolescente in lotta con una malattia falciforme e la sua squadra di pattinaggio agonistico. La sua unica regola? Niente dolore nero.

John David Washington e Zendaya in Malcolm & Marie (2021)

© Netflix

Resta inteso che la questione black è una parte integrante – e spesso alla radice – dell’industria. Dopotutto, è nota l’affermazione di Zendaya del 2018, quando ha detto di essere “la versione accettabile di una ragazza nera per Hollywood”, ed è diventato normale per attori di pelle meno scura interpretare personaggi con la pelle più scura. Il ‘test del sacchetto di carta marrone’ (una pratica discriminante usata dalle comunità black) non è poi così desueto, visto che i ruoli di primo piano per gli attori di pelle molto scura sono una rarità. L’attrice di Glee Samantha Marie Ware l’ha fatto notare di recente sulla sua pagina Instagram: “I casting ignorano le donne nere da fin troppo tempo e anche quando le ingaggiano, è per ruoli da spalla o da raccoglitrici emotive delle controparti bianche.” Se non vediamo ruoli che danno spazio a esperienze diverse, la soluzione allora è creare le nostre storie partendo da zero?

Gli autori black e lo storytelling

La qualità artistica negli anni Novanta e all’inizio degli anni 2000 è diventata il modello dello storytelling nero. Ho visto per la prima volta Donne - Waiting to Exhale (1995) due anni fa. Una pietra miliare del cinema nero, che riassume perfettamente le sfumature della sorellanza nera. Il messaggio è chiaro: non c’è nulla di più forte del legame tra amiche. Succede una tragedia, ma non è il nodo del film. Gli intrecci sono piacevoli – c’è un motivo per cui sitcom come Girlfriends (dal 2000 al 2008) sono ancora richieste 13 anni dopo la messa in onda dell’ultima puntata. Creare ciò che volevi vedere non sembrava totalmente fuori portata qualche decennio fa, ed è la strada da seguire, spiega Jones. “È fondamentale raccontare le nostre storie senza aspettare il permesso di qualche istituzione a maggioranza bianca.”

Donne - Waiting to Exhale (1995)

© Snap/Shutterstock

Fondamentalmente, non possiamo permettere che la sofferenza dei neri pervada i nostri schermi. Vedere visionarie come Issa Rae avviare società allo scopo di sviluppare le voci degli artisti sottorappresentati è un richiamo al futuro del cinema. Il peso per gli artisti di colore di rappresentare un’intera comunità deve finire, una possibilità che sembra concreta dopo la visibilità di movimenti come Black Lives Matter. “Le aspettative messe sugli artisti neri sono assurde e razziste. Molti grandi media non vogliono la cattiva pubblicità che deriva oggi dal presentare al mondo un’abbagliante immagine tutta bianca. Il nostro vero compito è assicurarci non solo un cast variegato davanti alla macchina da presa – questo è solo apparenza – ma una vera libertà creativa per gli artisti di colore dietro la macchina da presa e posizioni di potere nell’industria.”

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