Jasmine Trinca al Festival di Venezia: l'intervista di Vogue

Jasmine Trinca sembra una bambina colta con le mani nel barattolo di marmellata. Si è appena presa una pausa dagli incontri stampa per addentare un

po’ d’uva fresca appena arrivata nella suite dell’Hotel Excelsior per la Mostra internazionale del cinema di Venezia e non ha avuto neppure il tempo di mangiarla. Allora si siede sulla chaise longue di velluto rosso con le sneakers bianche Prada, mentre gioca con la mascherina. 

La foto che abbiamo scattato a Jasmine Trinca prima dell'intervista

La scritta la dice lunga sul suo mood del giorno: “We are not girls. We are silver bullets for your middle-class brains”. È una citazione dal fumetto Le ragazzine di Ratigher e lei la mostra fiera prima di cominciare la chiacchierata sul debutto alla regia con il corto autobiografico Being my mom (il racconto di una madre e una figlia), anche se il festival la vede protagonista anche in Guida romantica a posti perduti di Giorgia Farina e con Clive Owen, evento speciale alle Giornate degli autori, in sala dal 24 settembre. Ha fulmini per orecchini e l’aria sbarazzina e leggera di chi ha appena realizzato un sogno e forse è così perché stare dietro la macchina da presa regala una prospettiva unica sul mondo.

Perché ha deciso di onorare la scomparsa di sua madre dedicandole un corto?
Ho subito pensato di onorare questa perdita importante e riempire il vuoto con qualcosa che fosse creativo e vitale. La macchina da presa è il mio linguaggio da 20 anni e mi è sembrata la migliore per dar forma ad una cosa così intima della mia vita.

Being my mom

© Fabio Zayed

Le somiglia?
Quando era in vita tutti dicevano di no, ma forse in un modo o nell’altro invece si finisce per somigliare a chi si ama.

Che adolescente era?
Una figlia brontolona e meno elastica di lei, una donna libera e fuori dagli schemi. Però so che mi ha trasmesso l’eredità maggiore, una profonda dignità, nonostante le difficoltà, sempre a schiena dritta. Se fosse qui le direi che mi dispiace di averle rotto le scatole tanto a lungo e la ringrazierei per tutto quello che ha fatto per me.

Cosa l’ha ispirata a darsi alla regia?
Partecipare al debutto da regista di Valeria Golino in Miele: in lei non c’era solo competenza tecnica ma anche un pensiero affascinante. Ho capito che, dopo essere stata guardata a lungo e in modo molto diverso da tanti registi, è questo il momento di essere io a raccontare una storia, la mia, e a guardarmi.

Com’è il suo sguardo?
Di solito quando ad averlo è un uomo si parla di “sguardo” e basta, dando un valore universale al suo punto di vista, se ad esempio racconta le vicende di un padre e di un figlio. Ma se invece una donna mette in scena la storia di una madre e di una figlia allora nasce subito l’esigenza di aggiungere alla descrizione la parola “femminile”, come se invece questa vicenda non avesse la stessa valenza e portata. Per me il mondo non è binario e non dovrebbero esserci distinzioni maschio/femmina.

Being my mom

Non sembra che le vada molto a genio l’idea di “quote rosa” nel cinema o altrove…
Sono una battagliera per natura e a me sembrano una sconfitta, anzi mi viene da piangere all’idea che siamo costrette a chiedere qualcosa che invece dovremmo alzarci ed andare a prendere. Il comitato scientifico messo insieme per far fronte all’emergenza sanitaria aveva 12 membri e nessuna donna. Possibile che in tutto il Paese non ci sia una pensatrice meritevole di farne parte?

Nel suo corto ci sono molte influenze, tra cui il cinema muto. Perché questa scelta?
Mi affascina e mi commuove nella sua essenzialità. Per questo mi sembrava perfetto in questo esperimento in cui non ci si esprime a parole e gli unici suoni in sottofondo sono quelli di una città vuota e senza umanità. Solo così ti accorgi che il tuo dolore è piccolo piccolo rispetto all’universo che lo attraversa.

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