Una mappa più grande. Intervista a Ben Ehrenreich

Una versione fedele della delicata situazione del mondo contemporaneo è contenuta nella profezia del Corpus Hermeticum di Ermete Trismegisto, fondatore dell’Ermetismo nella tarda età ellenistica. «Stanchi

della vita, gli uomini non considereranno più il mondo come degno oggetto della loro ammirazione e del loro rispetto. Allora la terra perderà il suo equilibrio, il mare non sarà più navigabile, il cielo non sarà più pieno di stelle. Ogni voce divina sarà fatta tacere, e tacerà. Tale sarà la vecchiaia del mondo».

La raccolta di testi indica però anche la soluzione. Basterebbe alzare lo sguardo, cambiare prospettiva per rendersi conto che non esiste soltanto il destino deciso dalla visione lineare del tempo che, nelle mani di capitalisti, nazionalisti e religione, ci ha portato sull’orlo del precipizio. Occorre tornare al mito, al ciclico avvicendarsi di fine e rinascita, per superare i limiti della cultura occidentale e accogliere il caos represso dalla “civiltà”. Ci attende l’eredità di visionari e degli studiosi che le hanno tramandate. Spalanca visioni in cui tempo e spazio sono inseparabili. Rammenta che nelle stelle o nel volo di una civetta, c’è una mappa pronta a liberarci da un percorso solitario.

La riscoperta di culture ignorate – dai maya agli egizi, dai sumeri ai somali – attraversa un affascinante diario metafisico che lega attualità, gnosticismo, astrologia, autobiografia. Taccuini del deserto - Istruzioni per la fine dei tempi dello scrittore americano Ben Ehrenreich (pubblicato da Atlantide) è una guida a un’altra concezione del tempo, maturata durante estatiche nottate nel deserto fuori Los Angeles e Las Vegas, città in cui l’autore ha vissuto.

Una fotografia di Juliette Agnel, classe 1973, dalla serie “Taharqa et la nuit”, realizzata in Sudan nel gennaio 2019, in cui l’artista francese cattura le sagome scure dei resti architettonici che emergono dal deserto. Il suo lavoro di ricerca in paesaggi estremi l’ha vista coinvolta in una spedizione in Groenlandia nel 2018, documentata nella serie “Les portes de glace”.

© FOTO JULIETTE AGNEL COURTESY GALERIE FRANÇOISE PAVIOT.

Perché il deserto ci dà le coordinate?
In luoghi meno estremi è facile immaginare che la nostra specie sia al comando e che i frutti della terra siano lì per noi o non esista natura che non possa essere dominata. Gli effetti nefasti di questa illusione ci stanno inseguendo. Il deserto toglie l’uomo dal centro, cancella ogni illusione. Qualunque dramma vi si svolga, dalla lotta geologica tra vento, acqua e roccia, allo sforzo di animali e piante per sopravvivere, ricorda che noi non siamo al centro di nulla. Il deserto non si fa impressionare dalla nostra fantasia; insegna un’umiltà da cogliere.

Nel libro il cielo notturno, civette, creosoti, qualunque mito è la via per accedere a un’altra mappa del tempo.
Trasferirmi nel deserto ha significato mettere in discussione la nozione di un tempo lineare che non struttura soltanto la nostra esperienza ma la mitologia che la sostiene, immaginando la Storia come una linea che sale: dalla barbarie alla civiltà. Il mito del progresso resta centrale nella nostra visione del mondo; ma le sue radici nel colonialismo e nel genocidio, pur rimosse dalla discussione, permeano le nostre idee, dalla politica alla società; benché si sia dimostrato un mito sbagliato. Basti pensare che in un secolo la civiltà tecnologica ci ha condotto due volte sull’orlo dell’estinzione: nucleare, poi climatica.

I deserti sono l’opposto di un luogo morto?
Per gli occidentali i deserti sono simboli di desolazione. Li abbiamo usati per test nucleari. Città come Las Vegas, con i loro neon abbacinanti, tentano invece di scacciare la notte e nascondere le verità del de- serto sotto il piacere. Se si passa del tempo nel deserto, si scopre quanto sia ricco di vita, anche nelle circostanze più dure.

(Continua)

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