Siamo in anticipo, ma così c’è tempo di programmare il viaggio: destinazione Trieste, per visitare la mostra “Leonor Fini, memorie triestine” (Polo museale del Magazzino 26, dal
Il monastero di Nonza, in Corsica.
Un luogo dove anime e culture s’incontrano: il suggestivo convento francescano vicino a Nonza, in Corsica, splendido e isolatissimo, quasi in rovina, trasformato da Leonor Fini, pittrice surrealista, illustratrice, scenografa e scrittrice, in un padiglione per soggiorni estivi in cui diede vita a fêtes secrètes. Ed è Enrico Colombotto Rosso, pittore, testimone e confidente dell’artista, a eternare in una straordinaria raccolta fotografica quei momenti felici, documentando uno spaccato di spumeggiante creatività, di feste, di incontri magici, di coincidenze irripetibili. Più che un dietro le quinte, è un ritratto personale, intimo, con cui l’artista torinese descrive la bellezza della protagonista femminile, il suo carattere indipendente: «Dal convento si godeva di uno spettacolo degno di magnificenze imperiali. Era il 1964 e sui cieli della Corsica la stella di Leonor Fini brillava lucente tra mare e vento, tra gabbiani reali e lame bianche che si stagliavano sulle rocce frangendosi in miriadi di luminescenze cangianti. Un teatro in cui celebrare lo spettacolo dell’esistenza, dove vivere sia di giorno sia di notte: così voleva Leonor Fini».
Foto di gruppo con (da sinistra) Hugues Ronald, Constantin Jelenski, Leonor Fini, Enrico Colombotto Rosso, Stanislao Lepri e Anik Siné.
Sono ritagli di un mondo che sembra essersi stagliato contro il cielo, come un fascinoso affresco, per ricordarci che adesso nulla è più come prima. Quel prima erano gli anni fantastici dal 1954 al 1980. Leonor Fini è stata l’imperatrice che ha introdotto l’interattività: coinvolgendo gli altri artisti e rendendo felicemente produttiva la loro attività, in dialogo con il mondo, producendo un’estetica diffusa, ha creato la coesistenza delle differenze, elaborato visioni mentali. Ossessionata dal controllo della propria immagine, si divertiva a recitare, posando in fotografie che la ritraevano con parrucche e drappi di ogni genere. Aveva scoperto la magia delle maschere e dei costumi, che le permettevano di trasformarsi in quel che voleva: animale, pianta o qualsiasi altra cosa. Nasceva la leggenda della donna mascherata: da gatta, da sfinge. Malgrado l’apparente opposizione, Leonor con il suo intenso volto è tutt’altro che inespressiva. Unità che appare evidente osservando la cifra stilistica, la predilezione per la maschera, per la metamorfosi, per tutto ciò che introduce la “meraviglia” nell’ordine del mondo quale principio di sovvertimento della normalità. È il contributo a portare ovunque un po’ del proprio sapere, della propria arte, e viceversa assorbire da Nonza frammenti di storia. Le bastano pochi elementi, tratti dalla quotidianità, per smaterializzare gli spazi e trasformarli in atmosfere sospese ed evocatrici. Guardando le foto, si ha la sensazione di essere a Nonza.
Leonor Fini (foto di Enrico Colombotto Rosso).
Nella residenza estiva dove i frutteti discendono in terrazze fino al mare. Un rifugio per tutti quelli che hanno imparato a sognare, dove il confine tra arte e malia sfuma nell’azzurro del mare. Nel cuore più austero del convento, Leonor ha saputo rendere fluttuanti spazi oggettivamente immobili, ha evocato apparizioni, limate dal tempo e dal talento come una pietra dalle acque. È nel 1957 che decide di fare del monastero la propria residenza estiva e da allora vi ritornerà tutti gli anni, in giugno. Il viaggio si svolgeva a tappe. Leonor Fini, Stanislao Lepri, Constantin Jelenski e i gatti – dentro un paniere – prendevano dei taxi per la stazione di Lione, quindi, su vagoni letto di prima classe, viaggiavano la notte sino a Marsiglia, dove riservavano una suite per liberare i felini. Si imbarcavano poi per Bastia, da dove due o tre taxi li conducevano attraverso i monti sull’altra riva della Corsica, sul mare. Ivi giunti, montavano gli asini che, a staffetta, li trasportavano lungo il sentiero che conduce al monastero. Appena sopraggiunta, la priorità di Leonor era tuffarsi in mare.
Leonor Fini (foto di Enrico Colombotto Rosso).
Durante i tre, quattro mesi del loro soggiorno, era solita invitare gli amici: Max Ernst, Dorothea Tanning, Enrico Colombotto Rosso, Leonardo Cremonini, Michèle Henricot, Fabrizio Clerici; il disegnatore Bob Siné e la sua compagna Anik; i fotografi David Hamilton ed Eddy Brofferio, che fecero a Leonor e ai suoi ospiti numerosi e superbi scatti; l’editore Daniel Filipacchi, grande collezionista di opere di Stanislao Lepri; il commissaire-priseur Maurice Rheims, il creatore di moda Hector Ino ed Editha Dussler, la modella favorita di Irving Penn. Anche Brigitte Bardot e Gunter Sachs attraccarono il loro yacht nella baia e fecero visita a Leonor. Michelangelo Antonioni vi andò a prendere un tè con Monica Vitti. Una grande padrona di casa: collezionava i ciottoli levigati dal mare e li dipingeva con colori vivi per farne dono agli invitati, dai quali esigeva il cambio d’abito per il convivio.
Enrico Colombotto Rosso e Stanislao Lepri (foto di Leonor Fini).
In tavola, pesce fresco, pescato da loro stessi e cucinato sulla brace. Le vettovaglie provenienti dal mercato locale, deliziose e freschissime, erano talvolta utilizzate anche per abbigliarsi e poi scattare fotografie a suo gusto. Leonor, Stanislao e Kot (vezzeggiativo con cui lei soprannominò l’amato Constantin Jelenski) avevano tre piccoli letti, a guisa di bambino, con le coperte bianche. Nel 1959, quando Max Ernst e Dorothea Tanning vennero a Nonza, Leonor diede loro, quali ospiti d’onore, la camera matrimoniale. La prima notte del loro soggiorno una gatta partorì sul letto. Enrico Colombotto Rosso ricorda che Ernst era calmo e taciturno, mentre Dorothea era piena di vita e charme. Alla fine dell’estate si celebrava sempre la festa di Leonor: Kot arrivava da Parigi con dei fuochi d’artificio e grandi cesti colmi di ghiottonerie, mentre Colombotto Rosso portava da Torino delle lunghe tuniche bianche cucite a mano per farne dei costumi. Leonor fu probabilmente più felice qui che in qualsiasi altro luogo.
Max Ernst, Enrico Colombotto Rosso e Dorothea Tanning (foto di Leonor Fini).