Dare voce alle immagini • La fotografia di Arsenyco

Attraverso l'accostamento di fotografia e testo, Arsenyco mette in scena piccoli gesti metaforici che toccano corde particolarmente fragili, andando a smuovere le insicurezze dentro ognuno di

noi. Questi scatti agiscono con la stessa potenza di haiku giapponesi: nella loro immediatezza, le parole incontrano le immagini, e il loro incontrarsi provoca in noi una sensazione viscerale. Ogni composizione ci parla non per quello che è, ma per quello che siamo noi.

Chi c’è dietro lo pseudonimo di Arsenyco? 
Luca Cacciapuoti, Un romantico classe ’93. Nato e cresciuto a Napoli, una città violenta sotto tanti punti di vista, da cui ne ha assorbito il carattere, gli stati d’animo e gli atteggiamenti. Identificato come fotografo per aver scelto momentaneamente la fotografia come mezzo espressivo. Un ragazzo che vorrebbe morire in maniera “rocambolesca” come si sente dire in “Le conseguenze dell’amore” di Paolo Sorrentino. 

Come ti sei avvicinato alla fotografia? 
Durante gli anni da danzatore, e gli ultimi del liceo, le macchine fotografiche e la fotografia si fecero sempre più presenti negli ambienti che frequentavo, fino a quando preso dalla curiosità decisi di provare. Comprai la prima macchina fotografica quasi per capriccio al diciottesimo compleanno, stanco di dover chiedere il permesso di usare quella degli altri quando possibile. Non pensavo potesse diventare il mio futuro, e in realtà ancora non ne sono certo. Fatto sta che cominciai ad investirci presto, senza alcuna pretesa di guadagno, solo per un intimo piacere, personale, di migliorare. 

Il corpo ha una presenza fondamentale nei tuoi scatti. Perché? Da dove deriva questa tua attenzione?
Prima di dedicarmi completamente alla fotografia, ho studiato e lavorato per anni (12 circa) con la danza. Devo dire di essere stato fortunato in questo percorso di studi perché, anziché focalizzarsi esclusivamente sulla danza, ci veniva insegnata una cultura più generale del teatro e ancora più da lontano dell’arte. Questo ha fatto sì che passassi dal palcoscenico al set fotografico con una certa fluidità, senza rimanere intrappolato in un unico, rigido e severo linguaggio, adattando il mio bagaglio culturale con naturalezza e inconsapevolezza dal danzare al fotografare, con un meccanismo di messa in scena probabilmente simile. Se c’è qualcosa che ha davvero segnato la mia fotografia, sono sicuro che sono stati questi anni da allievo e danzatore.

Come è nato il progetto “Io che…”? 
Alcune volte mi sono sentito frainteso ed ho provato un senso di inadeguatezza per via di incomprensioni varie. Allora ho pensato di voler rappresentare alcune sensazioni o intenzioni attraverso gesti metaforici, anche per spingere a riflettere sul fatto che le intenzioni il più delle volte si presentano in un’estetica diversa rispetto quella che ci si aspetta. Chiedendomi se diamo più valore all’estetica o all’intenzione, e a quanto siamo sicuri di aver capito l’altro prima di trarne un giudizio, ho immaginato piccoli scenari metaforici, associando all’immagine (che è l’estetica) il testo come intenzione, in contrasto tra loro. E così sono diventato (ad esempio) un insetto sudicio, tanto innamorato di qualcuno da morirne sul ventre, o una lumaca viscida, che sbava sul volto dell’amata per proteggerla da segni della vecchiaia, quasi come a voler fermare il tempo.

Le immagini sono accompagnate da brevissime frasi. La fotografia ha un limite espressivo secondo te? Il testo può aiutarla in questo?
Viviamo in un periodo storico dove mi pare di vedere tanti segni perdere o cambiare significato velocemente, facendo diventare difficile l’interpretazione dell’altro. Questo evidenzia l’incomunicabilità alla base dei rapporti tra esseri umani (cosa che mi piace spesso evidenziare). riuscire ad avere un’idea chiara su quello che l’altro dice non è così scontato, è tutto così relativo… Il testo mi permette di dare una voce (fuori campo o meno) alle foto , la sua aggiunta approfondisce o mette in crisi quello che gli occhi vogliono vedere di primo impatto, mi permette di essere più preciso nel portare lo spettatore esattamente dove voglio, verso una riflessione più accurata, vicina ai tasti che voglio premere per suscitare qualcosa.

Da dove vengono queste frasi? Sono parole che hai sentito? Che hai detto?
Non hanno una regola. Sono cose che penso, che scrivo, che dico, che avrei voluto o avrei dovuto dire, sintesi di ragionamenti assai più vasti o lampi di genio scritti di getto. Raccontano ancora una volta pensieri, sensazioni, stati d’animo l’unica cosa che hanno in comune è che sono mie.  

Quanto la tua vita personale incide nei tuoi lavori?
La mia vita personale si riversa inevitabilmente in quello che produco, mi definisco introspettivo, e la mia ispirazione più grande sono sempre state le mie emozioni e sensazioni e il modo che ho di analizzarle. vivere e sentirmi vivo sono aspetti fondamentali per la mia produzione, che non avrebbe altrimenti stimoli. In quello che produco proietto quello che vivo e come lo percepisco. mi diletto nell’interpretare gli esseri umani e il mondo, anche quello più quotidiano.
 
Che cosa vuoi trasmettere con il tuo lavoro? A chi parli?
Da romantico voglio provocare un qualsiasi stato d’animo, non mi interessa essere necessariamente scandaloso, o dolce, o altro. Parlo dell’essere umano, del romanticismo che ci rende qualcosa di complesso, grottesco, paradossale, sublime.
Tramite immagini metaforiche mi piacerebbe riuscire ad invogliare il pubblico a non sottovalutare i pregiudizi, e a ricercare quello che abbiamo occultato in noi stessi per via della civiltà. Parlo a chiunque, sperando di non sottovalutare nessuno.

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