Questa Non È Una Fotografia Di Moda. Dawoud Bey

Nel corso degli anni, come molti artisti neri suoi contemporanei, il fotografo Dawoud Bey ha fatto mostre e ha avuto riconoscimenti, ma niente a che vedere

con la visibilità e l’attenzione ottenuta solo di recente. Per quanto la MacArthur Fellowship del 2017 fosse già un segnale decisivo, la costante ascesa di Bey è stata accelerata dal tardivo risveglio dell’attenzione nei confronti della storia e della vitalità della Black Art. An American Project, una retrospettiva degli ultimi quarant’anni del suo lavoro, in aprile si è trasferita dal San Francisco Museum of Modern Art al Whitney Museum, mentre dalla parte opposta della città, al New Museum, le coppie di ritratti del commemorativo Birmingham Project di Bey spiccano con la loro potenza nell’ambito della collettiva Grief and Grievance: Art and Mourning in America.

Dawoud Bey, “A Girl with a Knife Nosepin”, Brooklyn, NY, 1990, da “Street Portraits” (Mack, 2021).

© COURTESY OF THE ARTIST AND MACK.

Sin dall’inizio, negli anni 70, il suo interesse principale è stato il ritratto. La foto qui sopra, A Girl with a Knife Nosepin, è tratta dalla sua raccolta editoriale più recente, Street Portraits (pubblicata da Mack). Come più della metà delle fotografie del libro, anche questa è stata scattata a Brooklyn, dove Bey abitava alla fine degli anni 80 e ’90. La maggior parte degli altri ritratti del libro sono stati realizzati all’incirca nello stesso periodo a Harlem, dove ha portato a termine il primo lavoro che ha esposto; la sua prima mostra personale si è tenuta infatti allo Studio Museum di Harlem, nel 1979.

Invitato a commentare uno di questi primi ritratti sul New York Magazine, Bey ha detto che all’epoca era per lo più autodidatta, e sotto l’influenza di James Van Der Zee, Roy DeCarava e Irving Penn, nessuno dei quali gli aveva insegnato come avvicinare qualcuno per strada per fotografarlo. Quando finalmente ha cominciato a farlo, si è reso conto che chiedere a una persona “ti dispiace se ti faccio una foto?” era anche un modo per dirle “ti dispiace se affermo la tua presenza?”. Nonostante durasse un solo istante, questo scambio era anche la tacita dichiarazione di un legame, e l’immagine che ne risulta lascia trasparire empatia e comprensione.

Come scrive il critico e musicista Greg Tate nella postfazione a Street Portraits, l’opera di Bey ha sempre avuto a che fare con «la bellezza quotidiana della comunità nera». Ma questo libro non è tanto una celebrazione, quanto una conferma. La natura semplice e pragmatica dell’approccio di Bey si rispecchia infatti nei suoi soggetti: non sono su un palcoscenico, sono a casa. Alla ragazza con il piercing a forma di pugnale sulla narice Bey si avvicina più di quanto non faccia con gran parte degli altri soggetti delle sue foto, ma lei non si tira indietro. Con un turbante in testa e una collana di perline al collo, gli rivolge uno sguardo penetrante, tra la sfida e l’invito. Sembra pronta ad aggredirlo (verbalmente), o a ridere, o a mettersi a cantare.

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Vince Aletti è critico fotografico e curatore. Vive e lavora a New York dal 1967. Collaboratore di “Aperture”, “Artforum”, “Apartamento” e “Photograph”, è stato co-autore di “Avedon Fashion 1944-2000”, edito da Harry N. Abrams nel 2009, e ha firmato “Issues: A History of Photography in Fashion Magazines”, pubblicato da Phaidon nel 2019.

Da Vogue Italia, n. 848, maggio 2021

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