Era l’aprile 2003 quandoCasa Voguepubblicò questo lungo articolo-saggio scritto dalla storica e critica d’arte Jole De Sanna (purtroppo scomparsa l’anno dopo) su uno dei luoghi simbolo
L'esterno della Casa degli Artisti, anni 80.
Il moderno sistema dell’arte si genera nell’Ottocento a beneficio del Novecento. È con i Salons parigini e le Secessioni tedesche che gli artisti prendono il controllo della promozione del loro lavoro e scambiano informazioni con i colleghi. Un aspetto ancora poco considerato di questa rivoluzione è dato dalla costruzione di villaggi ed edifici per fornire un tetto agli artisti residenti o visitatori. Possono essere luoghi principeschi come la villa romana di Alfred Strohl (1880), ma anche decadenti come il Bateau Lavoir a Parigi, dove Picasso giunse nel 1904. A Parigi numerosi erano i “condomini d’artista”, come il Falansterio di rue Campagne-Première, dove intorno al 1912 abitavano personaggi come Jean Paulhan, Giorgio de Chirico, Eugène Atget, Giuseppe Ungaretti. Non è da meno Milano, dove già intorno al 1870 l’imprenditore edile Paolo Ortelli cede il suo palazzo di via Rossini 3 agli artisti (Medardo Rosso, Sebastiano De Albertis, Andrea De Micheli, tra gli altri).
il corridoio del primo piano su cui affacciano gli ingressi degli atelier.
Sempre a Milano, un nuovo stimolo alla topografia dell’arte viene dalla costruzione della Casa degli Artisti di corso Garibaldi 89: “sponsor” gli intraprendenti costruttori Aristodemo e Ferruccio Bogani. Desiderio della proprietà è fondare un exemplum architettonico, ed effettivamente la costruzione in ferro, vetro e cemento armato rappresenta un vero “caso” per l’Italia e per l’Europa nella tecnologia delle costruzioni. L’edificio, che dal 1983 fa parte del Patrimonio monumentale italiano, è predisposto, livello sopra livello, a differenti discipline e attività: al piano terreno, sopra le cantine risalenti al Settecento, ci sono gli studi per gli scultori, di taglio ampio, facilmente accessibili; al primo piano, allineati, quelli per i pittori, tutti con una parete intera a vetro esposta a nord (la luce giunge da sinistra al pittore intento all’opera); al secondo piano, alti spazi fasciati di vetro, vasti e docili alle inquadrature del fotografo o dello scenografo.
Il corridoio al terzo piano.
La casa è un prototipo sotto tre aspetti: nell’accezione funzionalista, che anticipa di un decennio le teorie della Bauhaus; per la cultura dei materiali, futuro vanto dei costruttivisti; per il disegno geometrico-ortogonale dell’architetto Luigi Ghò, laurea in fisica e matematica all’Università di Pavia e diploma a Brera, medaglia d’oro all’Esposizione Internazionale del 1906. I tempi di realizzazione sono da record: il 1° febbraio 1910 il progetto è presentato in Comune; il 3 dicembre 1910 l’impresa Valverti Ceruti & C. sottoscrive le responsabilità per l’esecuzione di impalcature in cemento armato; il 30 gennaio 1911 è concesso il nulla osta per l’esecuzione dell’opera; il 25 gennaio 1912 c’è la licenza di occupazione. Tutto in soli due anni. L’innovativa struttura impiega il calcestruzzo armato, un metodo per l’Italia pressoché sconosciuto, e applicato nell’ingegneria civile solo dal 1904. I regolamenti per l’impiego sono promulgati in Europa nel 1910, anno di nascita della casa. Nel 1911 la tecnica consente la copertura di grandi luci del ponte Risorgimento a Roma. Solo nel 1915 Giacomo Matté-Trucco la userà a Torino per il Lingotto. La casa si trova dietro la cortina muraria dei numeri civici 89, 91, 93 di Corso Garibaldi. Una roggia attraversa l’area su cui, all’epoca della costruzione, sorgevano quattro serre. Nel 1929 le serre al n. 91 erano otto, vivaio commerciale della ditta Fratelli Cattaneo. Nudo e trasparente il fronte stradale ancora ottocentesco e “in stile” l’affaccio sugli orti, la costruzione confina con due secoli, ma è anche legame tra due mondi: tra la milanese cultura degli ingegneri e l’attività, bohème compresa, degli artisti.
La liuteria al piano terra, affacciata sul giardino interno.
La Casa degli Artisti, così come l’attacco futurista dello stesso anno, entra in un percorso che ha radici nel Settecento rivoluzionario e il cui obiettivo è far sparire le Accademie di Belle Arti. Proprio nel 1910 a Montecitorio si chiede ufficialmente la soppressione pura e semplice di queste istituzioni, da sostituire con le case d’arte in cui far vivere un’ “intelligenza di contatto” tra generazioni consecutive di artisti. Come nelle famiglie, creare esperienza vivendo e lavorando insieme. Sempre nel 1910 Angelo Conti (“La casa dell’arte”) richiama l’esempio dei «laboratori scientifici, perché ivi gli alunni e i professori vivono in una completa e perfetta intimità familiare». Ecco il punto: «L’arte può essere aiutata nel suo sviluppo individuale, insegnata mai». Ventisette anni dopo l’occupazione dell’Accademia di Medardo Rosso, avvenuta nel 1883, il percorso raggiunge il Parlamento: era il giugno 1910. Il progetto della Casa degli Artisti è in Comune da febbraio. Futurismo e nuova Scapigliatura sono il compimento, non l’avanguardia. Le cronache di metà 900 descrivono questa residenza situata «in una vasta ortaglia in cui è fiorito mezzo secolo di pittura lombarda».
Lo studio di un pittore.
La città reagisce con immediato interesse. Si va dai fotografi per i ritratti e dai pittori a comprare “alla fonte” i quadri. Il passaggio delle attraenti modelle attese da cavalletti famosi colpisce l’immaginazione dei passanti, così come l’impressiona il chiasso delle feste – «che non furono mai orge», rassicura il Mezzanotte-Bascapé – organizzate dal pittore Giuseppe Solenghi, beniamino della operosa borghesia milanese. La formula della casa non è da bottega ottocentesca o rinascimentale e si oppone alla burocraticizzata accademia. Gli artisti ne fanno un uso disinvolto e libero, piuttosto collettivo; sopra i soppalchi si può dormire, all’occorrenza. Non c’è più lo “studio del maestro”, ma quelli di pittori come Adolfo Ferragutti Visconti, Andrea Alciati, l’illustratore della Domenica del Corriere Achille Beltrame, lo scultore Ornati, lo scrittore Guido da Verona. Si ipotizza una non documentata presenza di Alberto Savinio. È proprio questo accumulo simultaneo di tecnologia (l’ingegneria stessa dell’edificio) e lavoro artistico, di alta e bassa cultura che fonda e documenta la modernità della casa. Purtroppo, nel 1934 il piano regolatore disegna una direttrice tra via Legnano e via Moscova che l’attraversa come un bisturi.
La scala dal secondo al terzo piano.
La strada non sarà costruita, ma gli artisti, quelli sì, vengono allontanati. Dopo il 1938, resistendo, la generazione di “Corrente” e di Renato Birolli, lo scultore Luigi Broggini, Afro, Guido Tallone serbano gli spazi per gli artisti finché sarà terminata la Seconda Guerra Mondiale. Le bombe dell’agosto ’43 sventrano le grandi vetrate, ma le strutture resistono. La vera rovina è, nello stesso anno, l’inizio della causa tra Comune ed eredi che danno mandato alle immobiliari. La latitanza di una proprietà riconosciuta è il segnale di un degrado al quale gli artisti rispondono generazione dopo generazione. Il dopoguerra vede così i giovani nuovi autori a caccia di studi e di abitazione riprendere possesso della casa: sono gli esponenti del Realismo Esistenziale, Ferroni, Banchieri, Vaglieri, Ceretti, Cassani, Cazzaniga tra gli altri.
Uno studio.
Della vecchia guardia rimane Broggini, genius loci dell’edificio (che non solo lo difende nel dopoguerra, ma anche dopo il ’68, quando si riempie di occupanti occasionali e ospita un centro sociale), cantore del microcosmo del Corso Garibaldi che la speculazione edilizia svuota e riqualifica a prezzi per pochi eletti. Nel 1978 gli artisti che vi risiedono eseguono un primo restauro e reimpostano il lavoro negli studi. Un’affinità di costrutto collega la prima fondazione nel 1910 e la nuova; inedite realtà di ricerca d’arte, sotto forma di differenti associazioni convivono, indipendenti, fronteggiando il degrado architettonico. Studi di pittura, scultura, liutai, ma anche laboratori di ricerca per artisti in formazione, concerti animano da oltre vent’anni gli interni e il pergolato col grande glicine, sul retro.
Installazione nei sotterranei.
Il destino del più romantico edificio della città, più che dalla prepotenza delle piante che confonde i vecchi filari degli orti interni, o dalla giungla urbana pulsante per strada, è oggi minacciato dal burocratese delle delibere che stabilisce la realizzazione su una parte delle vecchie serre di due palazzi a sei piani, nonché il collocamento al suo interno della gipsoteca dell’Accademia di Brera. Il ricorso al Tar ha per il momento congelato la situazione. Gli artisti, ai quali la casa appartiene dalla sua edificazione, continuano a lavorare; volontari ripuliscono la zona degli orti, parte dell’intellighenzia cittadina insorge. Essere desti sull’arte è il postulato. Purché le mura tengano.