Monica Bellucci e Helmut Newton

In una suite fiorentina Monica Bellucci ride mentre litiga con le cialde e la macchinetta, cammina sotto una volta affrescata, si stupisce di tanto lusso,

serve il caffè. Curiosa in modo astuto e intelligente, passerebbe il tempo a far domande, piuttosto che sentirne di nuove. Intorno agli occhi ha un trucco scuro, «ancora quello di ieri sera», dice con disinteresse, e neppure un filo di occhiaie che a Helmut Newton – l’ha scritto nell’autobiografia – piacevano tanto perché le considerava confessioni esplicite di autoerotismo. Gentile e colma di sé, appare a suo agio nel suo non essere mai completamente a suo agio, consapevole del doppio sogno che vive chiunque la incontri, scomposta e ricomposta sulle pareti corticali, che fatica.  Parla volentieri. Esclama «vafanculò», con una effe sola e l’accento, quando racconta della scelta di portare in Grecia il suo monologo su Maria Callas. E di recitarlo, aiutata dai sottotitoli, direttamente in italiano: «Una lingua stupenda che purtroppo viaggia troppo poco: vaf….!».  

Si fa scappare che in Italia, ora come ora, ci tornerebbe a vivere volentieri. Programma per il momento sospeso perché c’è un nuovo film da girare a Parigi: Les fantasmes. Che guarda caso, in francese, vuol dire “fantasie”. Indossa una tutina nera che le fascia il corpo, sempre più esile e slanciato di quanto il sogno mediterraneo che incarna lasci immaginare. Ha piedi che hanno fatto l’amore con la tomaia delle scarpe firmate, migliaia e migliaia di paia. Caviglie che Helmut Newton ha voluto nude, per cingerle poi con speroni da cavallerizza, frustino in mano, in una primavera del 2001 a Monte Carlo per il servizio di Vogue Italia che riproponiamo in queste pagine. «Otto anni prima c’era stata la campagna per Blumarine a Nizza, pubblicata nel libro A Gun for Hire. Il lavoro per Vogue Italia è stato invece incluso nella raccolta Sex and Landscapes», ricorda Matthias Harder, direttore della Fondazione Newton. Monica ripercorre quei giorni, la memoria dei particolari è un po’ stinta, la verità di fondo no: «Gli uomini, artisticamente intendo, mi hanno molto amata, Helmut incluso, e non saprei dire perché. Agli uomini devo tutto».

Monica Bellucci fotografata da Helmut Newton per “Vogue Italia”, Luglio 2001.

© mac32

Quando pensa a Newton, che fermo immagine vede? 

Una scena in bianco e nero, e un uomo di ottant’anni con una forza vitale gigante, accattivante, con diecimila idee al minuto, a dimostrazione che l’età, quando c’è il fuoco, scompare.  

Quali ingredienti aveva quell’energia? 

Sensualità, capacità di guardare con occhi acuti. Una forza che assorbiva e dava, e immortalava la mia maturità ancora acerba. 

E lei, materia malleabile tra le sue mani.  

Quando mi sento rispettata divento così, disposta a giocare: un gioco molto rischioso e molto alto.  Sono passati quasi quarant’anni dal suo debutto, venti da quelle foto. 

Che pasta espressiva possiede il suo corpo, adesso?  

Quello di una donna adulta che è maturata, come fa la frutta. Questo è un argomento totalmente nuovo, sa? La novità di noi donne che pur senza la giovinezza biologica dei vent’anni abbiamo una femminilità e una sensualità che continua, nel cinema come nella vita. 

Ha appena terminato le riprese di un film su Anita Ekberg, che è dolorosamente sfiorita, eccome. 

Il regista Antongiulio Panizzi non voleva fare un film sul corpo, quanto sul mestiere dell’attrice, su cosa la spinge a entrare in un ruolo o no, sul divismo di ieri e di oggi. Il nostro è un lavoro metafisico, che non ha biglietto da visita, non è medico, né architetto né avvocato. A Parigi emblematicamente ci chiamano mademoiselle per tutta la vita: puoi essere sposata, avere cinquemila figli, e sei sempre signorina. 

Osano anche con lei? 

Certo. È come se fossimo di dominio pubblico. Come se non facessimo parte del disegno del tempo. 

La prima volta davanti all’obiettivo di Newton, nel 1993, lei che donna era? 

Stavo fluttuando. Stavo cercando. Lasciavo un periodo fatto di viaggi e moda, che conoscevo bene, per passare al cinema, che non conoscevo affatto e dove avrei potuto schiantarmi. Avevo un amore, a Roma, e non m’ero ancora trasferita in Francia. Due anni dopo ho girato il mio primo film a Parigi, L’appartement: ho incontrato Vincent, e il film ha ottenuto il Bafta come miglior pellicola in lingua non inglese.

(continua)

L'intervista integrale è su Vogue Italia, in edicola dal 6 ottobre

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