Quando fu chiaro a tutti che era il più forte del mondo, se ne andò per ricominciare da capo. Tre anni dopo, cercando una belva,
Nell’autunno del 1968 Walter Bonatti raggiunse l’Indonesia per un viaggio che lo avrebbe condotto da Sulawesi a Giava, dai varani di Komodo al cratere del Krakatoa, passando per un’interminabile “caccia” alla tigre nelle giungle di Sumatra. I suoi fotoreportage, pubblicati in Italia dal settimanale Epoca, riscuotevano un enorme successo, la sua popolarità era alle stelle. Eppure era passato poco tempo da quando, nel 1965, aveva concluso sul Cervino una straordinaria carriera di alpinista per cominciarne una così diversa: in quei primi tre anni da “inviato fotografo” aveva attraversato il Klondike e lo Yukon sulle tracce di Jack London, percorso l’Africa orientale in cerca delle emozioni di Hemingway, risalito le Ande peruviane e navigato l’Orinoco. Le videocamere e la tv a colori ancora non insidiavano la forza delle fotografie in grande formato, e il mondo non si era ancora rimpicciolito sotto la spinta del turismo di massa. L’epopea delle “vere”, eroiche esplorazioni era finita, ovviamente, ma quelli erano ancora tempi di curiosità e fascinazione nei confronti delle terre remote. In quei luoghi inospitali, attraversati per lo più in solitudine, Bonatti con le sue immagini prese in autoscatto realizzava non dei semplici documentari, ma dei racconti fotografici con un protagonista forte, bello e coraggioso. Così si era imposto nei sogni dei lettori (e delle lettrici) di ogni età, come nei quindici anni precedenti aveva acceso le passioni scalando le più aspre pareti di ghiaccio e di roccia.
Le sue montagne, certo: Grandes Jorasses, Grand Capucin, Dolomiti, K2, Petit Dru, Gasherbrum IV, Rondoy Nord, Cervino... Sugli “ottomila” del Karakorum e sulle Alpi, sul prediletto Monte Bianco come sulle Ande, tra gli anni ’50 e ’60 Bonatti aveva vissuto imprese e tragedie, esaltazioni e amarezze. Incontrata nell’adolescenza, la montagna era stata la sua prima fonte di avventura, ma anche la più economica: la sola praticabile per chi come lui, povero di mezzi, poteva tutt’al più “esplorare” l’orizzonte della Pianura Padana. E l’alpinismo, sport senza regole, era perfetto per uno spirito indipendente come il suo. Sballottato fin da bambino dalla miseria e dalla guerra, Bonatti era infatti cresciuto senza poter mettere radici, e del cavarsela da solo aveva imparato a fare una virtù ma anche un tratto caratteriale, una necessità dello spirito. La montagna gli permise dunque di spiegare le ali, e in quindici anni di spettacolari scalate gli regalò anche sufficiente notorietà per poter di nuovo spiccare il volo, quando l’ambiente umano della montagna stessa gli risultò soffocante. Solitudini, incomprensioni e invidie erano il prezzo inevitabile, per chi come lui aveva talento e coerenza da vendere e non accettava di restare impigliato tra le convenzioni e le abitudini consolidate. Negli ultimi anni del suo alpinismo erano tornate a montare le polemiche attorno alla conquista del K2, impresa del 1954 sporcata da infamie e bugie. Era tempo di cambiare aria, di desiderare altrove.
L’alpinismo estremo gli aveva insegnato anche a misurare le proprie capacità, a equilibrare il coraggio con l’umiltà, a fantasticare senza perdere la concentrazione, a curare i dettagli per ridurre al minimo l’imprevedibile. Sapendo che in ultima istanza è la natura a decidere: «La montagna è più grande di te: se dice di no, tu non sei nulla». E Bonatti non fece che trasferire nei propri viaggi la forza e le capacità affinate in montagna, e la sua ricerca di confini sui quali mettersi alla prova. Fu questo (anche questo) a collegare la sua carriera di alpinista a quella di inviato-esploratore: la ricerca di ambienti estremi, irraggiungibili ai comuni mortali, dove cercare spazi, esperienze sensoriali, introspezione e libertà. «Fa paura», scrisse, «ciò che non si conosce. Quindi io faccio del mio meglio per conoscere, e conoscendo riduco la mia paura».
(Continua)
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In apertura: Walter Bonatti tra i ghiacciai del Monte Bianco, in una foto dei primi anni Sessanta. © Archivio Walter Bonatti, Centro Documentazione Museo Nazionale della Montagna - CAI Torino.