The Bad and the Beautiful: il documentario su Helmut Newton

«Ogni volta che con Helmut ci sedevamo in un caffè, passavamo il tempo a osservare le persone e a inventarci delle storie su di loro:

da dove venivano? Che facevano? Lui non era solo un voyeur in senso stretto, era un grande osservatore dell’umanità», racconta Gero von Boehm, direttore del documentario Helmut Newton: The Bad and the Beautiful – presentato in anteprima al Tribeca Film Festival in aprile e prossimamente in programmazione anche in Italia, distribuito da Movies Inspired (la data è in attesa di conferma a causa dell’emergenza coronavirus).

«Era una combinazione impossibile di ragazzaccio berlinese, gentleman, provocatore, anarchico e, ovviamente, immenso artista. Sicuramente riflette la storia della sua vita». Effettivamente non stupisce che le fotografie di un ragazzo ebreo di Berlino, cresciuto durante la libertà febbrile di Weimar e diventato maggiorenne con il buio di Hitler, siano così piene di contraddizioni: inquietanti e seducenti, di pessimo gusto e raffinatissime, erotiche e respingenti.

Claudia Schiffer in un’immagine di Alexander Hein, Banbury 2019. Schiffer e le altre donne presenti nelle immagini successive figurano nel documentario “Helmut Newton: The Bad and the Beautiful”, di Gero von Boehm.

Nel film di von Boehm vediamo Susan Sontag accusare Newton di produrre immagini misogine, ma tutte le sue muse e modelle raccontano quanto le abbia fatte sentire sicure di sé posare nude per lui. Sentiamo Helmut raccontare la fuga dalla Berlino nazista, «dove rischiavi di finire in un campo di concentramento per aver attraversato la strada col rosso», ma scopriamo che una delle sue più grandi influenze iconografiche è stata Leni Riefenstahl, la regista del Reich. Lo ascoltiamo affermare con sicurezza che a interessargli è esclusivamente quello che sta fuori – faccia, petto, gambe, nient’altro –, ma poi lo guardiamo produrre alcuni dei più acuti ritratti del potere e della società del secolo scorso. Sentiamo Newton sostenere che le peggiori parole che si possono associare al suo lavoro sono “arte” e “buon gusto”, mentre ci scorre davanti un documentario su come sono nate alcune delle più grandi opere d’arte della storia recente della fotografia. Il lungometraggio riesce, con singolare equilibrismo, a presentare le sfaccettature di un uomo complesso e di un artista geniale senza critica o giudizio, lasciando agli spettatori l’onore e l’onere di unire i puntini – per quanto opposti possano essere. 

D’altronde è lui stesso ad ammetterlo: gli opposti sono incredibilmente eccitanti. Una delle sue prime frasi nel documentario è: «Non esiste nulla di più noioso al mondo dei fotografi. E dei film sui fotografi». 

Nadja Auermann filmata da Sven Jakob-Engelmann, Berlino 2019.

Come ha fatto a convincerlo a girareThe Bad and the Beautiful? 
Ho sempre pensato che le sue immagini appartenessero al grande schermo, ma non posso dire che l’idea di subire lo stesso trattamento inflitto ai propri modelli lo entusiasmasse. L’idea di non essere in controllo non gli piaceva per niente. Ci ho messo quasi due anni a convincerli a fare questo documentario. Anzi, a sedurli: perché ovviamente anche sua moglie June doveva essere d’accordo. Helmut era roba sua.

Come siete diventati amici?
Per caso. Ci siamo incontrati a Parigi, a casa di un amico comune. Durante tutta la cena ci siamo scambiati occhiatine d’intesa, perché accanto a lui era seduta una donna bionda della Parigi bene che continuava a dire cose molto poco intelligenti. Lì abbiamo capito che condividevamo lo stesso senso dell’umorismo. E infatti ci siamo visti anche a pranzo il giorno dopo. E poi a Monte Carlo a casa sua. E allo Chateau Marmont a Los Angeles dove passava 4 mesi l’anno. 

Hanna Schygulla filmata da Stephanie Füssenich, Berlino 2019.

Apprezzava già il lavoro di Newton prima di conoscerlo di persona? 
Sì, ho sempre pensato fosse un incredibile narratore. Molti fotografi raccontano delle scene, dei momenti ben definiti, ma nelle sue c’è sempre un mistero: c’è l’inizio o la fine di qualcosa, e tu rimani lì a chiederti cosa succeda nelle scene mancanti. 

Come mai ha deciso di intervistare solo donne nel suo documentario? 
Avevo trovato analisi e dichiarazioni di uomini sul suo lavoro – giornalisti, galleristi, curatori, collezionisti –, ma mancava quasi del tutto il punto di vista femminile. E io volevo sapere cosa pensassero di Helmut le donne che avevano lavorato con lui. Poi ho visto l’immagine di Charlotte Rampling nuda, su una scrivania del Nord-Pinus ad Arles, e mi è venuta la curiosità di sapere come fosse nata quella foto. Coincidenza vuole che quello fosse il primo nudo sia di Helmut sia di Charlotte. E lì ho deciso.

Charlotte Rampling ripresa da Pierre Nativel, Parigi 2019.

Cosa ha scoperto di Newton girandoThe Bad and the Beautiful?
Per la prima volta mi ha parlato della sua fuga dal regime nazista, della paura e della rabbia di vivere a Berlino in quegli anni. C’è stato un momento molto commovente in cui mi ha detto: «Andiamo alla Bahnhof Zoo, la stazione». Quando gli ho chiesto perché, ha risposto: «Aspetta». Mi ha portato al primo binario: quello da cui è partito per lasciare Berlino nel 1938, pensando che non sarebbe tornato mai più. Uno degli ultimi edifici che ha visto era un casino prussiano per ufficiali. Ora quell’edificio ospita la Fondazione Newton. Avevo la pelle d’oca. Incredibilmente, Helmut adorava tornare a Berlino. Ho sempre pensato fosse veramente generoso da parte sua, dopo quello che aveva passato. Ma amava l’atmosfera e le donne berlinesi. Non a caso è sepolto lì, poco lontano da Marlene Dietrich.

Nel documentario racconta anche la grande influenza sulle sue immagini di Leni Riefenstahl.
Newton aveva 13 anni quando Hitler è andato al potere. A quell’età gli interessavano due cose: le ragazze e la fotografia. Se all’improvviso sei circondato dalla propaganda nazista, è inevitabile che influisca sul tuo immaginario. E non è difficile vedere dove: quelle ombre, quei corpi statuari... Alla fine della sua vita era in rapporti amichevoli con Leni: si scrivevano lettere, l’aveva fotografata, e c’è anche un’immagine (che non è nel documentario) in cui si tengono per mano. Un giorno mi ha detto: «Sai, Leni purtroppo era un dannato genio». Si vedeva che da una parte voleva odiarla, e dall’altra ammirava il suo lavoro. In un certo senso si stava riappropriando di quell’immaginario così tremendo, per depotenziarlo e dargli un significato diverso, suo. Per avere potere su quelle immagini.

Anna Wintour in un’immagine di Pierre Nativel, New York 2019.

A un certo punto June racconta di aver chiesto a suo marito se si rendesse conto di quanto la sua opera fosse profondamente sovversiva, se lo facesse intenzionalmente o fosse solo un ragazzaccio. Lei che ne pensa?
In un fax ad Anna Wintour, Newton scriveva – attribuendo la frase al Kaiser Wilhelm II – «Più nemici, più onore». Amava provocare, e adorava leggere le reazioni dei lettori: più erano arrabbiate, meglio era. Viviamo in tempi molto più bigotti rispetto agli anni 70 o 80, quando freschi della rivoluzione sessuale il nudo non era più tabù. Adesso molte delle foto di Helmut non verrebbero pubblicate. Le sue erano immagini che ti mettevano all’angolo, mostrandoti gli aspetti scomodi della società, quelli che volevamo rimuovere. E ora quelle foto sono parte della storia della fotografia. Dovremmo stare molto attenti a censurare l’arte, non credo ci sia nulla di più importante della libertà di espressione.

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In apertura: autoritratto di Helmut Newton allo Studio Yva, Berlino 1936.

IMMAGINI DAL DOCUMENTARIO “HELMUT NEWTON - THE BAD AND THE BEAUTIFUL” , LUPA FILM, BERLINO 2019, COURTESY MK2 FILMS

Da Vogue Italia, n. 841, ottobre 2020

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