Casa Vogue. La casa-rifugio di Luigi Moretti

Sulla casa, sull’abitare, da mesi si dice molto e si scrive ancora di più. Il lavoro e la didattica a distanza, il distanziamento dovuto, magari

la quarantena in isolamento, così come la convivenza forzata: tutti temi che bene conoscete. Come vedete, dopo tanto peregrinare globale, torniamo sempre lì: al luogo dove stiamo, da dove vorremmo andarcene e dove vorremmo tornare, il domicilio degli affetti così come, purtroppo, anche dei conflitti. Ma, insomma, sempre il luogo del cuore, il nido, il rifugio, dove le nostre identità dovrebbero essere al sicuro. Siamo andati a riprendere, tra i tanti articoli che Casa Vogue da sempre dedica al tema, un servizio incentrato su un bel progetto sulla bellezza delle origini. Parliamo della villa Saracena ideata da Luigi Moretti sul litorale di Santa Marinella e delle vicine Califfa e Moresca. Ecco, qui il tema della casa-rifugio è centrale; e le parole stesse dell’architetto sono riflessioni che suonano attualissime.
In realtà, il servizio apparve su Casa Vogue ad aprile 2004.
(Paolo Lavezzari)

© Alexia S.

A Vision. Le tre ville di Luigi Moretti a Santa Marinella.

La casa? qualcosa di nostro, l’unico spazio che può astrarsi dalla vita quotidiana con gli altri e dalle sue avventure grandi e meschine. Con il mare e con il cielo vuole, o spera invece, di aprire un colloquio continuo, senza intermissioni estranee, e a essi si apre con il presentimento di qualcosa che potrebbe avvenire”.
Con queste parole, scritte in una lettera a Gio Ponti nell’agosto del 1964, Luigi Moretti suggeriva la chiave di lettura della villa “Saracena” a Santa Marinella, sul litorale romano.

Nell’ottobre dello stesso anno, Ponti pubblicava su Domus le immagini della casa, insieme ad altre due architetture di Moretti. Un breve corsivo intitolato “Contro l’uniformità” annunciava la volontà della rivista di presentare opere dotate di una propria «capacità di immaginazione architettonica». Scriveva l’architetto milanese: «Siamo per l’architettura e per tutto quello che essa può esprimere senza uscire da se stessa». Si poneva, in questo modo, contro la “rinuncia”, la passiva adesione a schemi prestabiliti.

© Alexia S.

Materica e solare, introversa e al tempo stesso tutta orientata alle gioie della natura e del luogo, la “Saracena” è un’architettura da studiare proprio per la complessità della sua ricerca spaziale, per i suoi valori costruttivi, per la ricchezza di sorprese visuali, di tensioni plastiche, di varietà espressive, di citazioni e rimandi – come sempre, in Moretti – alla lezione del passato: l’amato barocco. La vicenda della costruzione comincia nel 1955 con un progetto di villini abbinati, su commissione di Francesco Malgari e Caterina Di Geronimo per la figlia Luciana Pignatelli d’Aragona Cortez. L’accesso dalla strada, protetto da muri, avviene attraverso uno stretto passaggio. L’ampio patio prepara all’ingresso, con il piccolo vestibolo e l’atrio leggermente strombato, secondo una sequenza propria dell’architettura romana pompeiana. La casa è strutturata intorno a due nuclei fondamentali: il volume chiuso delle stanze di riposo – la torre – e la zona aperta del soggiorno con lo spazio circolare del pranzo. A unire le due parti è la galleria ombreggiata che costeggia il grande giardino, vero e proprio “salone” che guarda al mare.

Scrive Moretti: «Tutta la casa è come immersa in un’atmosfera di sogno. La superficie di tutte le sue pareti è scabra, come incrostata da secoli d’immersione in un mare strano e luminoso. Vibra in ogni suo punto e quasi trema nell’aria». La pelle spessa e ruvida che avvolge l’intera struttura è come «quelle incrostazioni che fuori dal mare hanno sempre intorno il mare. Forse è una casa sommersa e affiorata», conclude, «o forse ancora sommersa». E, infatti, sembra quasi riemergere ogni volta dal gioco costante della luce e dell’ombra sui suoi pieni e i suoi vuoti.

© Alexia S.

La vicenda creativa del complesso di Santa Marinella – composto dalle tre ville “Saracena”, “Califfa” e Moresca” – segna un momento particolarissimo della vita dell’architetto. Nato a Roma nel 1907, Luigi Moretti, infaticabile progettista, molto sensibile alla dimensione intellettuale, è protagonista di una fase dell’architettura italiana che segnerà, per motivi ideologici, il suo destino di isolamento da una parte consistente della cultura e della critica. Negli anni del dopoguerra realizza opere di altissimo valore dal punto di vista della ricerca architettonica, come la palazzina romana “Il girasole” o le tre case-albergo milanesi, caratterizzate dalle profonde fenditure impresse nella struttura.

Nella villa “Saracena” la personalità di Moretti sembra riecheggiare in tutta la sua imponenza, riempiendo i muri della forza e del significato del suo pensiero. In questo progetto egli mostra come lo spazio sia un elemento «sensibile e vivo», modulandone il ritmo e la simmetria per rendere espressiva la composizione. Approdano qui, emergendo nel concreto dell’architettura costruita, alcune tra le più interessanti riflessioni teoriche di Moretti, che nei sette numeri di Spazio – la rivista da lui fondata, diretta e impaginata dal 1950 al 1953 – sono raccolte in testi di straordinaria importanza come quelli sul valore della modanatura, su forma e struttura, sulle sequenze di spazi. L’architetto coglie in questa opera le «qualità emotive» del muro come «fatto primordiale», affidando a esso il bisogno di protezione.

© Alexia S.

È ancora Moretti a sottolineare la duplice natura dell’abitazione: «Una casa gelosa, saracena, degli affetti, dei pensieri, delle belle donne, per gli uomini scontenti e irrequieti. Una casa come desiderio di vita altra. Comunque con carattere ora chiuso ora introverso, ora aperto ad abbracciare l’intero mondo». Lo spazio, chiaramente definito dalla successione degli ambienti e dei percorsi, svela all’interno, nell’alternarsi dei materiali e dei colori, una grande attenzione al dettaglio, con particolari finemente impreziositi come la pavimentazione in ceramica smaltata di Napoli e le piastrelle decorate che accompagnano l’andamento della scala. Dalla terrazza sulla roccia, antistante il soggiorno, si scende alla grotta sul mare. Non esiste più la bellissima chiusura in ferro battuto con inserti di vetro disegnata da Claire Falkenstein, cui Moretti aveva chiesto la realizzazione di un cancello “magico”. È questo, infatti, il luogo in cui, simbolicamente, il legame tra architettura della casa e ambiente naturale trova la sua massima realizzazione.

© Alexia S.

Pensata inizialmente come dépendance della “Saracena”, l’adiacente piccola villa “Califfa” (1964-67) è un unico e compatto volume di due piani, chiuso «come una torre di guardia» verso la strada e invece svuotato nell’ampio affaccio sul mare. La finitura esterna è realizzata con lo stesso intonaco a grana grossa di cemento bianco mescolato con cretoni di pozzolana.

Il terzo momento dell’avventura morettiana a Santa Marinella è quello della realizzazione della propria casa, che comincia nel 1968. L’impianto planimetrico è generato da un complesso sistema di tracciati che ne regolano il disegno e presenta, nell’impostazione dei volumi degradanti verso il mare, evidenti richiami alla “Califfa” e alla “Saracena”. La villa “Moresca”, questo il suo nome, è l’ultimo episodio di un trittico rimasto incompiuto. Moretti infatti non vedrà mai la sua casa ultimata. L’edificio sarà completato solo nel 1981, con numerose modifiche rispetto al progetto originario.

© Alexia S.

Il fascino delle tre ville di Santa Marinella, al di là del loro sapore mediterraneo, risiede nella concezione dell’abitazione come spazio raccolto, come “rifugio” dove poter rispecchiare i propri stati d’animo e concretizzare il sogno d’una vita felice. Contro la “gente” anonima, senza volto, che ci circonda ma non ci conosce e non ci ama, Moretti scrive: «Cerco senza alcun dispregio, forse con umiltà addolorata, di chiudermi ad essa e lasciare soltanto uno stretto varco, speranza che da esso mi filtri un “prossimo” da accogliere. E mi taglio, non per orgoglio, ma per bisogno di vivere, un pezzo di cielo mio e uno spazio di mare anche senza Nessuno». Parole in cui va ricercato il senso di queste architetture, intimamente aperte sull’infinito orizzonte del mare.

E così vengono in mente i versi liberi di Allegria di naufragi del primo Ungaretti: «E subito riprende/ il viaggio/ come/ dopo il naufragio/ un superstite/ lupo di mare». Oppure, le parole pronunciate molti anni dopo da un Moretti malato, ma comunque irrefrenabile: «Ora non potrò più riposarmi, avendo già ricominciato la lotta quotidiana». Perché dal naufragio terreno ci salva la fede, non certo intesa come quella «particolare religiosità che si incontra e si riconosce così sovente nel mondo moderno», ma come completa coscienza esoterica delle cose del mondo.

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