Mostre 2020:Protext! Quando il tessuto si fa manifestoa Prato
Il Centro Pecci è uno spazio pieno di vita, nonostante tutto. È luminoso, ha sale immense
È una collettiva parecchio colorata, questa al Pecci: Camilla Mozzato e Marta Papini hanno selezionato con cura striscioni, stendardi, collage di t-shirt e poi arazzi artigianali e mille altre opere che non sono stoffe qualsiasi, ma artworks firmati da artisti che hanno scelto il tessuto come strumento espressivo: Pia Camil, Otobong Nkanga, Tschabalala Self, Marinella Senatore, Serapis Maritime Corporation, Vladislav Shapovalov, Güneş Terkol. Bisogna lasciarsi coinvolgere perché questa è una mostra di puroart-activism.
Güneş Terkol bandiera preparatoria per il workshop del Centro Pecci, 2020
Pia Camil, Vicky’s blue jeans hammock, 2018
© Aurélien Mole
Si comincia entrando in un ambiente realizzato dal collettivo greco Serapis Maritime Corporation che ha realizzato un grande murales su tela e dipinto cuscini, sparsi per terra, composti da materiale di recupero. Pochi passi e ci si parano innanzi le sculture tessili della messicana Pia Camil fatti con t-shirt e jeans di seconda mano: sono indumenti prodotti in America Latina per gli Stati Uniti che tornano in Messico, nei mercatini dell’usato, seguendo in fondo quelle che sono le rotte dei migranti rigettati indietro. Il pensiero va a Trump, al muro, ai bambini degli immigrati clandestini ancora trattenuti nei centri del confine tra i due Stati e alle elezioni americane che ci attendono tra due settimane.
Nella sala successiva la nigeriana Otobong Nkanga (apprezzata anche all’ultima Biennale di Venezia) presenta arazzi che esplorano i cambiamenti sociali e topografici e l’impatto dell’uomo sulla natura mentre il russo Vladislav Shapovalov fa le pulci alla nostra storia recente: dopo una lunga ricerca al Centro di Documentazione della Camera del Lavoro di Biella, “capitale italiana” dell’industria della lana, ha scovato una serie di bandiere usate durante le manifestazioni dei lavoratori delle fabbriche tessili della metà dell’Ottocento per chiedere maggiori diritti e salari più equi. Ma ciò che emoziona di più, se vi avvicinate all’opera, sono le piccole firme femminili ricamate su queste bandiere: sono i nomi delle lavoratrici che le hanno realizzate, con dedizione e passione per la causa. Cucire diventa un atto di resistenza politica anche per la turca Güneş Terkol che inserisce nei suoi arazzi, video e composizioni musicali dedicati alle donne del suo Paese, la cui indipendenza e laicità è da tempo fortemente compressa dall’oscurantismo del presidente Erdogan.
Otobong Nkanga, Infinite Yeld, 2015, Courtesy Defares Collection, Photo credit Lumen Travo Gallery, Amsterdam
Cuore della mostra è lo spazio occupato dalle opere di Marinella Senatore che, nella serie di stendardi ricamati a mano dal titolo “Forme di protesta” e nei bellissimi disegni esposti declina le tante sfaccettature del tessuto quale strumento di comunicazione verace e vivace: i gonfaloni nelle cerimonie del nostro Meridione, i manifesti “carnevaleschi” di certi politici sudamericani, gli striscioni dipinti a mano dei lavoratori anglosassoni, i passamontagna con cui le Pussy Riot, artiste attiviste anti-Putin, si coprono il volto. E se la parte finale della mostra è dedicata a workshop d’artista con studenti dei vari istituti di moda, non si può non rimanere ipnotizzati dai colori dei quadri-scultura dell’americana Tschabalala Self. Trent’anni appena, infanzia passata a guardare la madre cucire sul tavolo della cucina di casa, oggi è coccolata dalle gallerie: costruisce rappresentazioni volutamente esagerate legate all’immaginario dei corpi femminili neri con una combinazione di materiali super colorful trovati nei mercatini di Harlem e poi ricuciti, stampati e dipinti per formare nuove trame, nuove storie, nuove forme di protesta.
In apertura: Tschabalala Self, Carma, 2016
Pia Camil, Divisor Pirata Amarillo, 2017
© Keith Hunter