C’è stato un momento nel quale anche l’Italia è arrivata sulla luna. Se non proprio nella realtà, almeno nella finzione di una serie televisiva. L’avevamo
(Paolo Lavezzari)
Moonbase Alpha Calling
Può accadere che a volte sia uno stile a dettare una storia, e non viceversa. È questo il caso della serie televisiva inglese del 1975-77 “Spazio 1999”, che Gerry Anderson ideò dopo avere rinunciato nel 1970 alla creazione del seguito di un altro suo cult televisivo, “Ufo”. Prodotta dalla britannica ITC e, per la prima stagione, dalla Rai, “Spazio 1999” fu ideata in tempi record e nel giro di pochi anni venne messa in onda in tutto il mondo, diventando un cult che ancora oggi vive attraverso migliaia di fans. Due stagioni, 48 puntate, due protagonisti interpretati da Martin Landau e Barbara Bain (allora anche coniugati), rispettivamente il comandante John Koenig e la dottoressa Helena Russell, una trama che situa la base Alpha sulla Luna che, proiettata da una esplosione di scorie nucleari fuori dall’orbita terrestre, percorre universi sconosciuti.
Oltre che per la storia, la serie si afferma per uno stile proprio e unico, quello di un ferreo minimalismo anni Settanta che, grazie ai mobili e agli oggetti in gran parte di design italiano, esprime l’atmosfera chirurgico-metafisica che ha caratterizzato, e ancora oggi ne caratterizza, ogni episodio. Il design non è elemento decorativo, ma protagonista vero e proprio. Ne fu artefice lo scenografo inglese Keith Wilson, cui si accompagnarono – solo nella prima stagione, quando la serie non era ancora stata adattata ai gusti più americani del nuovo produttore Fred Freiberger che la orientò all’azione, ai colori e a una riduzione del metafisico – le celebri tute color panna degli Alphani, disegnate da Rudi Gernreich, fautore dell’unisex e inventore a metà anni Sessanta del monobikini e del tanga. Un design che detta atteggiamenti e situazioni con mezzi drastici, come la luce piatta, i colori guida (crema, grigio, bianco) e le linee curve dei mobili, rigorosamente bianchi e di plastica, appositamente ordinati dall’Italia.
La serie è un autentico campionario del nostro miglior design di quegli anni, raccolto dal 1994 dalla collezionista Catherine Bujold al solo scopo di ricreare nella propria casa di Montreal, con un’ottantina di oggetti e mobili ripresi dalla serie, una vera e propria base Alpha, da lei definita «un’oasi di modernismo», e ricostituita anno dopo anno con i pezzi chiave. «Il primo oggetto fu la lampada Sorella di Harvey Guzzini. Poi, con l’aiuto di internet, riuscii a raccogliere i mobili fondamentali per rendere la mia casa uno spazio alphano: due poltrone e un tavolino Ottoman provenienti da Habitat 67 (l’esposizione internazionale realizzata a Montreal nel 1967 dedicata al design, ndr), una seduta originale Elda di Joe Colombo del 1968, un tavolo Giano Vano di Artemide, quattro sedie Selene, altre nove lampade Sorella fino al 2004, quando acquistai una sedia Ribbon di Artifort e l’Unibloc 4 di Steiner, uno sgabello di Nana Ditzel, una lampada Pileo, la Lucciola di Guzzini e molte altre lampade anni Sessanta e Settanta.
La luce è tutto in “Spazio 1999”, è fonte di calore e di vita, in natura come in un universo sintetico». E la luce fu l’elemento base anche per Keith Wilson che, dovendo creare mondi alieni nuovi per ogni episodio in sole due settimane, inventò per la base lunare Alpha muri divisori usando pannelli funzionanti come Lego, che potevano essere montati e smontati facilmente e che divennero anch’essi un marchio di riconoscibilità della base: lisci, scorrevoli (come le porte dagli angoli stondati), rivestiti di plastica bianca, da cui Wilson faceva propagare una luce piatta, fredda, diffusa. «Dovevo creare un mondo mai visto prima e la base lunare doveva essere ciò che noi allora immaginavamo come il futuro: clinico, asettico, minimale. Nessun colore, se non il bianco, poteva esprimere tutto questo».
© ITV / Rex Features
Un futuro che Keith Wilson, ipotizzando un seguito per la storia dei vagabondi dell’universo, immagina diverso da quello che creò. «Dal punto di vista della storia, gli Alphani avrebbero dovuto vivere nella base per molti anni. In questo caso la base l’avrei vista più disordinata, non così clinica, con roba e cianfrusaglie sparse qua e là, più simile allo stile degli alieni. Vissuto». Se l’ottica di Catherine Bujold è infatti quella dura e pura dell’intenditore, in Keith Wilson è la voce dell’artista a prediligere la libertà che gli fu concessa da Anderson per inventare a suo piacimento mostri e mondi alieni che lo scenografo ideò tanto barocchi, colorati e psichedelici quanto gli Alphani erano contenuti e algidi come le linee del loro habitat. «Pur condizionato dal budget, sul mondo degli alieni avevo mano libera per inventare ciò che volevo. Potendo scatenare la mia fantasia, riciclavo quanto mi capitava sotto mano, soprattutto resti e oggetti dismessi provenienti da fonderie di plastica. Tutto ciò che d’inusuale potevo trovare, lo usavo. In tal senso credo di essere stato un pioniere del riciclaggio e della sostenibilità».
© Foto courtesy Catherine Bujold
Non fu però l’estro degli alieni, ma il mondo plastico e latteo della base Alpha a trasformare la serie in quello che Wilson definisce un’icona originale. Per lui solo Kubrick creò qualcosa di simile in “2001: odissea nello spazio”. Ma se il design in Kubrick resta scenografia, pur con oggetti simbolo come la poltrona Djinn di Olivier Mourgue, in “Spazio 1999” lo stile catalizza tutto il resto. «Volevamo creare un futuro che immaginavamo come possibile. Nessuno poteva indovinare cosa sarebbe stato, ma molti dettagli divennero poi patrimonio iconografico. Non era mai accaduto prima. In qualche modo abbiamo tracciato lo stile di quegli anni. Quando oggi la gente pensa a quel periodo, lo identifica con la serie». Un periodo che non invecchia. Neppure per Catherine Bujold, che con quei mobili condivide il quotidiano e per la quale «questo design resterà sempre fuori dal tempo ed evocherà sempre un futuro che ancora aspetto».