Il culto del "carino". Intervista a Simon May

Ci sono i Pokémon, con quella buffa e improbabile aggressività, oppure E.T. l’extraterrestre, in tutta la sua corrucciata, ultraterrena malinconia, fino alle opere dell’artista nipponico

Takashi Murakami, dalle policromie spinte e dalle fantasie surreali. Tutti hanno una qualità in comune: non sono belli, ma carini. Non per qualcuno: per chiunque o quasi li guardi. La loro piacevolezza è universale, plebiscitaria, il loro magnetismo trasversale.

Sono «armi di seduzione di massa», come li definisce il libro The Power of Cute (Princeton University Press, già tradotto in coreano, spagnolo e giapponese, prossimamente in italiano). Il suo autore Simon May, visiting professor di filosofia al King’s College di Londra, è autore di vari saggi sulle tante nature dell’amore.

“Carino” è un concetto vago, un attributo palese eppure sfuggente. Come definirlo?
Attraverso il suo spettro di significati. Da una parte comprende ciò che è dolce, innocente, come un cucciolo di orso oppure un panda, come figure dalle caratteristiche anatomiche simili a bambini, dalle teste fuori misura, le fronti sporgenti, le andature goffe. Suscitano in noi sentimenti protettivi, trasmettono gioia e conforto. Spostandosi dall’altra parte dello spettro, ci si muove verso una prospettiva più inquietante, sovversiva: la distorsione delle qualità dolci in qualcosa di oscuro, di indeterminato. Come l’opera Balloon Dog di Jeff Koons, la sagoma di cane che appare potente perché d’acciaio, impotente in quanto priva di volto e occhi, enorme e insieme indifesa, familiare nella forma ma dalle proporzioni innaturali. E poi c’è Hello Kitty, la bizzarra ragazza-gatto senza bocca né dita. Decisamente più complessa di un cucciolo soffice.

Perché queste figure indefinibili seducono?
Riescono a riflettere l’attuale spirito del tempo, sovvertono le barriere tra i soliti opposti, come uomo e animale, buono e cattivo, adulto e bambino, più di recente donna e uomo. È un’apoteosi di indeterminatezza. La biografia di Michelle Obama non a caso s’intitola Becoming, anziché “being”: la società ha perso il valore della fissità, della devozione alla natura eterna divina. Ora privilegia ciò che è di passaggio, che è transitorio, esattamente come avviene nella moda, ambito in cui si vanno dissolvendo i confini tradizionali. 

Con quali effetti?
Un incremento di accessibilità. Il carino è come un velo, una tenda dalla quale guardare attraverso. Il provocatorio si affievolisce, l’ironia lo rende giocoso, accettabile. È un’estetica del perenne strizzare l’occhio. Cute è all’opposto del kitsch: sempre ammiccante, senza pretese di autenticità.

(Continua)

In apertura: “Kawaii Styling Salon” di Suzy Chan: graphic designer di Macao, vive e lavora a Londra.

Leggete l'intervista integrale a Simon May sul numero di novembre di Vogue Italia, in edicola dal 4 novembre

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