Festival di Venezia 2020: intervista con Tilda Swinton

Tilda Swinton pensava che il film di debutto – Caravaggio di Derek Jarman – per lei sarebbe stato il primo e l’ultimo. Non voleva fare

l’attrice ma la vita è andata diversamente. Leone d’oro alla carriera allaMostra internazionale del cinema di Venezia (2-12 settembre) indossa la T-shirt di quella pellicola del 1986 con grande fierezza. “Sono una che conserva tutto”, dice ridendo durante la masterclass e prima di presentare The Human Voice di Pedro Almodovar, girato appena un mese fa in tempo di post-Covid e già in anteprima al festival. L’eclettica Premio Oscar londinese, 60 anni il 5 novembre, sfugge alle convenzioni e alle regole e sembra non tema nulla.

Cate Blanchett consegna il Leone d'oro a Tilda Swinton

© LAURENT LAURENT VU/SIPA / IPA

È davvero così? C’è qualcosa che la spaventa da morire?
Se si dice di qualcuno che è “senza paura” lo fa sembrare facile e invece io di cose che mi spaventano ne ho fatte. Un esempio? Ogni volta che parlo in pubblico perché sono una timidona. Sembra strano, perché sono qui tranquilla a parlare con una sala mezza piena di gente, ma ci riesco solo perché ci guardiamo negli occhi e chiacchieriamo. Quando ieri sera invece sono salita sul palco per ritirare il Leone d’oro non è stato così semplice, ho solo fatto finta di essere disinvolta.

E ci è riuscita alla perfezione, ha pure sfoggiato una maschera veneziana tutta dorata sul red carpet. Sembra l’essenza della disinvoltura, oltre che dell’artista che fugge dalle etichette. È contenta che la Berlinale abbia annunciato premi genderless?
Brava Berlino, finalmente! Non solo mi fa piacere ma è giusto. Mi stupisco ancora della necessità degli esseri umani di chiudersi in compartimenti secondo le categorie più diverse, inclusi etnia, classe e genere. Questo criterio non funziona, è una perdita di tempo e la vita è troppo breve per queste stupidaggini. M’intristisce il pensiero di dover essere incasellati e aggiustati, mi dà la claustrofobia che si senta il bisogno di definirsi come “donna” o “gay” o altro.

Pedro Almodovar e Tilda Swinton

© Marechal Aurore/ABACA / IPA

Come ha vissuto la pandemia?
Come tutti sognavo solo di viaggiare, andare via, ovunque fosse la destinazione, ma poi ho capito che è più sicuro stare a casa e permettere al cinema di fare quello che gli riesce meglio, portarci nei posti fisici che non possiamo visitare. E ho ripensato ad uno dei più bei viaggi della mia vita, quando ho nuotato nella barriera corallina e mi sono sentita fortunata, anche se può essere che non abbia più in futuro la possibilità di tornarci. Comunque vada mi tengo stretti quei ricordi.

Hollywood con le attrici over 40 non è molto generoso come ruoli. Lo ha sperimentato?
Penso a Greta Garbo che si è ritirata a 36 anni, è lei la mia idea di Hollywood. Lo ha fatto perché pensava di aver già interpretato tutte le maschere disponibili, era delusa e annoiata da quello che le veniva offerto. E se capitasse anche a me farei lo stesso.

Ha detto che aveva questa idea già al primo film, Caravaggio?
Verissimo: quello che mi interessa è il dialogo con altri artisti e infatti non caso per i primi dieci anni di carriera l’80% dei miei progetti erano diretti da pittori o musicisti, gente che voleva sperimentare con il cinema e che non vedeva l’attore come un mero esecutore di ordini ma come un compagno di viaggio. Ecco perché non mi piace parlare di “carriera”, ma di “percorso artistico” perché in fondo le scelte professionali non possono essere separate dalla vita.

Uno stile che non le appartiene?
Lavorare su un set in cui il mio compito consiste nell’imparare le battute, recitarle in scena e tornarmene in camerino. Non ci penso proprio, per me far parte di un progetto vuol dire immergervisi, parlarne, tirare fuori le idee e metterlo in pratica insieme.

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