Sofia Coppola è molto attenta ai costumi di scena, sempre eccezionali e memorabili in ogni suo film
La produzione cinematografica di Sofia Coppola è una dagherrotipia in technicolor, un carosello di
L'amore di Sofia Coppola per il cinema è un'eredità che si considera erroneamente scontata, la si definisce come una naturale prosecuzione del talento del padre, quando in realtà, di Francis Ford, rimane solo una maniacale attenzione al dettaglio e un'indiscutibile capacità nel raccontare storie. Lo stile da regista di Sofia ha la delicatezza della tragedia moderna che non ha bisogno dello spettacolo per smuovere il pubblico, che non ricerca la battuta sguaiata per far ridere, ma che anzi trova l'ironia nel dramma dell'incomprensione e dell'incomunicabilità. Lo si vede in Lost in Translation del 2003, che le vale il suo primo Oscar per la miglior sceneggiatura originale, dove Bill Murray interpreta un se stesso più triste e stanco alle prese con le istruzioni in giapponese di un attrezzo da fitness. Il sentimento non ha la passione di uno sguardo di De Niro, la morte è delicata come il rigolo di fumo di una sigaretta nelle mani di un'adolescente insoddisfatta, tutto è pervaso da un senso di evanescenza, da un'inconsistenza che riprende la medesima volatilità del reale. Due Razzie Awards come peggior attrice negli anni 90 per i suoi ruoli ne Il Padrino Parte II e Parte III, Sofia riconosce se stessa nell'accettare i suoi limiti e nell'abbracciare il suo destino: basta stare a guardare, si prende in mano la cinepresa e si inizia a creare.
L'amore di Sofia Coppola per il costume è la metamorfosi su schermo di anni passati sotto l'ala di Karl Lagerfeld, dei giorni da stagista da Chanel. Il bottone è narratore, il tessuto scultore, il colore è un termometro emotivo. Plasmando la sua estetica su tweed e schegge d'oro, Sofia assorbe da Karl e da Mademoiselle Coco la filosofia dell'abbigliamento come linguaggio segreto, comunicazione cifrata di sentimenti e verità che solo gli adepti della couture possono decodificare. Da Milena Canonero a Stacey Battat, la regista sceglie le migliori costumiste di Hollywood per vestire i suoi film e i suoi racconti - non è tanto il personaggio a essere abbigliato, quanto l'intera narrazione, nel suo complesso. Marie Antoinette, premio Oscar per i migliori costumi nel 2006, non sarebbe lo stesso senza l'apparizione fugace di un paio di Converse Chuck Taylor lilla, poggiate a terra con sonnolenza, meste e ribelli, ma mai indossate dai membri del cast. Ci si ricorda di loro, delle Manolo Blahnik, del soundtrack rock - gli attori altro non sono che parte della scenografia.
Viaggiatrice fantascientifica di ere passate, Sofia Coppola torna alla Versailles Rococò, al Sud di Rossella O'Hara e alla guerra d'indipendenza. Si proietta nel futurismo di Tokyo e nell'avanguardismo di Los Angeles, nella tranquillità fasulla di un paesino di provincia. Il suo mondo non ha confini, come non lo hanno i suoi costumi - dal Giardino delle Vergini Suicide alla nuova uscita On the Rocks, tanti racconti e un unico bel vestire.