La bellezza per chi non può vedere

Che cos’è la bellezza per una persona che non può vedere? È possibile relazionarsi con la moda privi del senso della vista? A queste domande

ha provato a rispondere Michele A. Williams, ricercatrice del North Carolina con un PhD in Human-Centered Computing, che da 15 anni si interessa alla user experience dei sistemi tecnologici dalla parte delle persone con disabilità. Nel 2011 ha pubblicato il saggio Fashion for the Blind: a Study of Perspectives, oggi dirige il M.A.W. Making Accessibility Work, un centro di consulenza all’accessibilità.

«Mi chiedevo cosa provassero le persone non vedenti per qualcosa di così visivo come l’abbigliamento, e se la tecnologia potesse diventare uno strumento adeguato per renderne accessibili le informazioni», racconta Williams. «Secondo i miei studi, a priori non ci sono differenze nel modo in cui qualcosa viene percepito, ma solo nel ragionamento che porta il singolo a una certa conclusione. Lo spettro di possibilità tra vedenti e non vedenti è lo stesso». Il gusto personale e il dilemma tra stile e comfort sono aspetti che prescindono dal vedere: anche chi vede può essere dichiaratamente disinteressato all’argomento moda, e così ad abiti che soddisfano prima di tutto l’occhio preferirne di comodi, che assecondano il senso del tatto. «Alcuni partecipanti ai miei studi hanno confessato di non sopportare i jeans perché troppo rigidi, ma ci sono state donne che hanno anche spiegato come andassero deliberatamente a caccia di complimenti perché in quel modo potevano definire la loro bellezza», continua.

«Uno degli strumenti con cui abbiamo cercato di aiutare i non vedenti nella loro relazione con la moda è stato il crowdsourcing: un’attività di supporto online attraverso la quale un gruppo di volontari vedenti risponde a domande soggettive sull’abbigliamento».

Williams sostiene che le persone con disabilità visiva vogliono conoscere le opinioni di chi vede perché anch’esse si sentono giudicate in base al loro aspetto. È inoltre convinta che sarà la tecnologia ad aiutarle a sviluppare una relazione con la moda e una maggiore consapevolezza della bellezza. Ma oggi se si escludono le app di crowdsourcing di informazioni visive, gli strumenti sono davvero scarsi. «Le etichette a radiofrequenza Rfid possono contenere informazioni convertibili in audio attraverso speciali lettori text-to-speech, ma sono poco utilizzate per descrivere i capi d’abbigliamento a chi non può vedere», spiega la ricercatrice. Altrettanto rari sono i siti web sulla moda fruibili dalle persone con disabilità visiva, poiché se da un lato i criteri di accessibilità dettati dall’organizzazione mondiale Wai (Web Accessibility Initiative) permettono alle informazioni contenute in rete di essere leggibili attraverso gli strumenti di screen reader, di contro impoveriscono drasticamente l’aspetto delle pagine web.

Comunque, al di là delle attuali barriere tecnologiche, conclude Williams, «tra i non vedenti il concetto di bellezza esiste. Ma solo la consapevolezza delle differenze delle disabilità renderà possibile scoprirla attraverso tutti i sensi».

In apertura: Patrick Tosani, “Portrait n. 13”, 1985: l’opera fonde il sistema braille con il processo fotografico. Tosani (1954) utilizza la fotografia come potenziamento della visione e sfida alla percezione: «L’oggetto non è quello che sta davanti a noi ma quello che colpisce i nostri sensi».

Da Vogue Italia, n. 842, novembre 2020

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