Non si smette mai di imparare. L’abbiamo capito nei due giorni che abbiamo trascorso nel Teatro alla Scala, dapprima come invitate alle prove e nei
La telefonata del signor Armani. Nessuna Carmen avrebbe potuto apparire più elegante, moderna, sensuale di Marianne Crebassa in quell’abito rosso Armani Privé con il bustino interamente ricamato in paillettes e cristalli e la gonna a balze in tulle e crinolina che già fece scintillare Cate Blanchett, ma che su di lei, mentre cantava dell'"amour qui est un oiseau rebelle” acquisiva un altro significato, diremmo più pieno e compiuto. Era l’abito perfetto. E nessuno poteva adattarglielo meglio del suo autore, Giorgio Armani stesso, che alle 7 di sera di sabato ha chiamato i collaboratori, mentre lavoravano a fianco del costumista Gianluca Falaschi per suggerirlo. Le doti canore e attoriali dell’interprete hanno fatto il resto. Quella ripresa dall’alto della Crebassa sdraiata in una nuvola di rosso lacca ci resterà impressa a lungo.
Marianne Crebassa in Armani Privé
Il parrucco cambia il senso del vestito. Se mai avessimo avuto dubbi sul valore fondamentale dello styling nella narrazione della moda, questi sono stati fugati dalla mutazione dello strepitoso Valentino color fresia indossato da Elīna Garanča da moda a costume a causa di quella cofana a riccioli che la soprano deve aver voluto a tutti i costi. Lo scontro fra “segni” diversi impediva una lettura coerente del vestito. Ma d’altronde, le star del belcanto non si possono gestire come modelle diciottenni, e si sa che attorno al capo vogliono volume.
Lisette Oropesa in Armani Privé
I sarti di Dolce&Gabbana. Molta ammirazione generale della sartoria della Scala per i colleghi dell’atelier di Dolce&Gabbana che hanno seguito praticamente in scena il regista Davide Livermore cucendogli addosso un frac di grande personalità, ideale per il suo racconto conclusivo sul valore patrio del teatro, e quel fatidico 11 maggio del 1946 in cui Arturo Toscanini, rientrato in Italia dopo il celebre e famigerato schiaffo per essersi rifiutato di dirigere l’inno fascista “giovinezza”, commosse l’Italia e il mondo intero salendo sul podio ricostruito in pochi mesi. Il Teatro alla Scala ha cadenzato, punteggiato e orchestrato tutti i fatti storici più rivoluzionari degli ultimi due secoli
Body positivity significa anche diritto di cambiare taglia. Dopo averci fatto capire che cosa sarebbe stata la sua Lucia di Lammermoor con un toccante “regnava nel silenzio” (per favore, gentile signora Maria Di Freda che governa il teatro, la riprogrammi appena possibile) Lisette Oropesa, elegante e bellissima interprete anche di una delle linee più difficili di Giorgio Armani, ha mostrato al mondo intero che aver perso molti chili non vuol dire rinnegare il proprio sé e non necessiti di commenti, tanto meno irritati o irridenti. Vuol dire, semplicemente, desiderare un altro corpo, o averne bisogno per rispondere ad esigenze professionali imprescindibili. Lisette Oropesa voleva dimostrare al mondo intero di poter sbaragliare qualunque rivale in qualunque ruolo. Come la Callas. Crediamo che cambiare pelle sia un’opportunità data a tutti: lei l’ha colta al meglio.
Kristine Opolais in Giorgio Armani
I vestiti godono di vita propria ma di letture personali. Gli strepitosi curatori del programma radiofonico di RadioTre “La barcaccia” commentavano ammirati l’abito di Marina Rebekha in “Un bel dì vedremo” dall’ampia scollatura disseminata di fiori. “Ecco, le verbene”, commentavano. Era un abito di collezione di Dolce&Gabbana, naturalmente, magnificamente adattato per le misure della cantante lungo quella speciale “idea inclusiva di femminilità” che Falaschi riconosce fra le massime attrattive dell’atelier. Ed era ovviamente perfetto per evocare gli olezzi di verbena dell’aria pucciniana.
Maria Chiara Centorami ha molto insistito per vestire Marco De Vincenzo. Aveva molta ragione.
Laura Marinoni non ha indossato il Gianluca Capannolo rosa che nella ripresa compare appeso in camerino, recitando in sottoveste. Ha molto sbagliato (ha sbagliato anche il tono di recitazione della poesia di Eugenio Montale “Ho sceso un milione di scale dandoti il braccio”, che da intima e commovente si è trasformata in un dramma sceneggiato davvero fuori luogo, per non dire di averla declamata molto didascalicamente sulle scale del padiglione Mario Botta, ma questa è un’altra faccenda).
Caterina Murino offusca i vestiti. O, meglio, li rende parte di sé. Come dovrebbe fare ogni vera attrice. E lei lo è. Interpretare in tulle rosa un ruolo maschile drammatico come quello di Triboulet ne Le Roi s’amuse, insomma il Rigoletto originario narrato da Victor Hugo, non era evidente. Grandiosa.
Matina Rebekha in Dolce & Gabbana
Elīna Garanča in Valentino