Casa Vogue. Quando The Band cominciò a suonare il suo valzer

Era il Giorno del Ringraziamento (25 novembre) del 1976, quando sul palco delWinterland BallroomdiSan Francisco, il gruppo, impropriamente etichettato rock, The Band dava il suo

concerto d’addio. Una scena fin troppo grande per quell'ultimo giro di valzer e per dei musicisti abituati da sempre ad ambienti raccolti, ma allora era una festa con molti invitati, la celebrazione ufficiale al contempo della fine di un’epoca. A celebrare l’evento c’era infatti uno stuolo di stelle della musica, da Bob Dylan di cui, come si sa The Band era stato il gruppo d’accompagnamento, a tutto il fior fiore della West Coast, a presenze europee quali Eric Clapton, Ringo Starr o Van Morrison. E c’era anche Martin Scorsese il quale filmò tutto e ne fece un documentario intitolato “The Last Waltz” che uscì un paio di anni dopo e passò anche al Festival di Cannes. La pellicola di Scorsese, rivista a distanza di anni, conserva saldamente il titolo che allora si meritò di miglior concert film mai realizzato. Ovviamente poi uscì un triplo long playing con successiva reissue in cd box. Cosa c’entra tutto questo con Casa Vogue? C’entra perché The Band fu protagonista di un servizio pubblicato nell’ottobre 2011. O meglio, il gruppo musicale e la casa in cui abitò nei dintorni di Woodstock: un edificio in mezzo al bosco e tutto sommato ben poco e rilevante dal punto di vista architettonico. Era il 1968 e quella casa chiamata Big Pink per il colore piuttosto inusuale con cui era dipinta divenne anche parte del titolo del loro fulminante esordio discografico, “Music From Big Pink”. Elliott Landy, che è stato con Henry Diltz e forse un paio ancora di autori il più attento registratore su pellicola fotografica della scena musicale di allora, tirò fuori dal suo straordinario archivio il resoconto di una sua visita a Big Pink, per la domenica di Pasqua. Una session fotografica decisamente informale, così come del tutto estranei, anzi controcorrente, a qualsiasi schema estetico-musicale dell’epoca era e rimase The Band. (Paolo Lavezzari)   

The Band a Big Pink.

© Elliott Landy

Tutto comincia con un incidente in moto e una casa in un bosco. L’incidente è quello in cui la storia ufficiale dice che Bob Dylan si ruppe una vertebra del collo nel 1966. La casa è quella soprannominata Big Pink, dove si scrisse una pagina importante della storia del rock. La costruzione è anonima, tranne che per il colore rosa confetto di cui è tuttora dipinta. Sorge al termine di uno sterrato, ai piedi delle Catskills Mountains, a un paio d’ore da New York. È vicina a Woodstock, che già prima di ospitare il mitico festival del ’69 era un rifugio di artisti, musicisti e scrittori. Fu proprio sulle strade lì intorno che Dylan scivolò in moto, procurandosi la frattura che lo immobilizzò per un periodo. Era stanco della pressione del pubblico e così colse l’occasione della convalescenza per ritirarsi temporaneamente dalla scena. Chiamò a raccolta i musicisti chiamati The Band con cui era stato in tournée negli ultimi due anni: i canadesi Robbie Robertson, Rick Danko, Richard Manuel, Garth Hudson e l’americano Levon Helm. Cercava un posto tranquillo, dove provare in attesa di tornare a tenere concerti. E quando trovò la casa rosa nel bosco, la prese al volo. Da fuori, il posto ha mantenuto un’aria del tutto comune. Eppure pochi luoghi hanno avuto un significato così importante nella storia della musica contemporanea. Tanto che, ancora oggi, decine di appassionati da tutto il mondo vanno a visitarlo. 

Il bassista Rick Danko con Hamlet, il cane di Bob Dylan.

© Elliott Landy

«È un posto unico per le jam sessions che vi si sono tenute e per la musica che vi è stata creata», dice Donald LaSala, musicista cinquantasettenne e attuale proprietario della casa. L’elenco dei luoghi imperdibili della storia del rock è lungo: dalla villa (Graceland) di Elvis a Memphis a quella dei Grateful Dead a San Francisco, passando per gli studi dei Beatles di Abbey Road, a Londra, e gli Electric Lady studios di Jimi Hendrix a New York. Ma a rendere speciale Big Pink è il fatto che sia stata usata sia per vivere sia per suonare. L’alone di segretezza voluto da Dylan per proteggere la sua privacy ha contribuito ad accrescere il mito. A quei tempi, il menestrello di Duluth era all’apice della fama. Ma i membri di The Band, come vennero poi conosciuti i suoi musicisti, furono strumentali alla sua evoluzione. Dylan insegnò loro i segreti per comporre una canzone, loro lo aiutarono a riconnettersi con i ritmi rockabilly e r’n’b. È qui che i musicisti scrissero alcune delle loro canzoni più leggendarie, racchiuse in “The Basement Tapes”, «il miglior album nella storia della musica popolare americana», secondo John Rockwell, critico del “New York Times”. Ed è qui che The Band, ispirata da Dylan, produsse “Music From Big Pink”, il primo album come gruppo autonomo. Il disco segnò una vera svolta nel modo di comporre e di suonare il cosiddetto “rock”. Al punto che “Time” dedicò al gruppo una copertina nel 1970. E musicisti come Eric Clapton dichiararono di aver cambiato modo di suonare dopo averlo ascoltato. Nei mesi in cui questi dischi venivano creati, fra marzo e dicembre 1967, Dylan viveva poco distante da Big Pink, a Byrdcliffe, con la moglie Sara e i figli. Ogni giorno si recava nella casa rosa, dove, con Danko e Manuel, si dava i turni alla macchina da scrivere sistemata in cucina per comporre i testi delle canzoni. Poi si ritrovavano tutti nello scantinato a provare gli arrangiamenti. «Ci innamorammo di quello stile di vita», dice Hudson parlando con Martin Scorsese del periodo passato a Big Pink nel documentario “L’ultimo valzer” (1978), dedicato a The Band. «Spaccar legna, aggiustare i registratori e le zanzariere, passeggiare nei boschi con il cane: era un modo di vivere rilassato che nessuno di noi provava più da quando eravamo bambini». 

Il chitarrista Robbie Robertson all’esterno di Big Pink.

© Elliott Landy

La casa divenne il loro playground e le sue caratteristiche influenzarono direttamente il tipo di musica che vi fu creato. Con il suo soffitto basso e le pareti di cemento, lo scantinato impose ai musicisti di abbassare il volume degli amplificatori e il tono delle voci, creando un’armonia diversa. «Sicuramente furono costretti ad ascoltarsi di più fra loro», dice LaSala, che ancora oggi utilizza lo scantinato per suonare con gli amici. L’atmosfera semplice di Big Pink era perfettamente in sintonia con lo stile “roots” dei suoi occupanti. Mentre la maggior parte dei musicisti rock era legata al movimento hippie, alla ribellione sociale e alle droghe psichedeliche, i membri di The Band facevano del loro meglio per andare controcorrente. La loro musica era innovativa pur non cedendo a tentazioni lisergiche e il loro abbigliamento s’ispirava più allo stile del 1860 che a quello dei figli dei fiori. «Erano molto lontani dal prototipo delle rockstar di allora», dice Elliott Landy, fotografo oggi sessantottenne che seguiva la scena musicale del tempo e autore delle foto inedite qui pubblicate. 

The Band.

© Elliott Landy

Fu Albert Grossman, manager di Dylan e The Band, a incaricare Landy di scattare le immagini per l’album d’esordio del gruppo. Il primo incontro avvenne a Toronto: «Non conoscevo i ragazzi e mi parvero usciti da un’altra epoca», ricorda Landy, che per trovare l’ispirazione ricorse a un libro fotografico sul periodo della Guerra Civile. «Quando mostrai loro le atmosfere che volevo riprodurre, accettarono entusiasti». Landy rimase stupito da un’altra richiesta dei musicisti: un ritratto di gruppo insieme a genitori e parenti da pubblicare sul disco. In quel periodo, l’istituto della famiglia era profondamente criticato dai movimenti giovanili, e quello era un ulteriore modo per il gruppo di affermare la propria diversità. «Volevamo ribellarci contro la ribellione», ricorda il chitarrista Robbie Robertson. «Se tutti andavano da una parte, noi andavamo dall’altra; il nostro istinto ci spingeva a separarci dalla massa». Per realizzare i ritratti dei musicisti fu scelto il fine settimana della Pasqua 1968. La maggior parte del gruppo abitava stabilmente a Big Pink in un’atmosfera molto informale. 

Autoritratto di  Elliott Landy.

© Elliott Landy

Quando Landy arrivò, fu invitato a fermarsi per la notte. Era sabato, il giorno dopo i musicisti (vestiti di tutto punto, come testimoniano le immagini) erano attesi a casa Dylan per pranzo. Landy fu lasciato a Big Pink con l’allora ragazza di Levon Helm, Bonnie. La quale, dopo essersi ubriacata con il fotografo, lo obbligò ad accompagnarla alla ricerca del fidanzato, convinta che lui la tradisse e che, con la scusa del pranzo pasquale, si fosse preso qualche ora di libertà. Arrivarono a casa di Dylan, ma nessuna traccia di Helm. Il quale, comunque, fu visto dal solo Landy uscire di soppiatto dalla finestra di un’altra casa poco distante, dove Bonnie sospettava (a ragione) che abitasse un’amante dell’infedele. Rientrati, Landy pensò che non fosse il caso di aspettare il ritorno del musicista e tolse il disturbo. Era il tempo in cui le rockstar erano famose per distruggere i posti dove alloggiavano. Rolling Stones, Led Zeppelin, Doors, Who, perfino Johnny Cash, avevano instillato l’idea che demolire case e stanze d’albergo fosse parte della loro poetica. Questo influenzò negativamente anche la reputazione di Big Pink. «Quando acquistai la casa, circolavano voci che a quell’epoca fosse stata danneggiata», dice LaSala. «In realtà, era in perfetto ordine». Gli fa eco Landy: «Non erano tipi da rovinare le case altrui. Erano responsabili e rispettosi». Dopo il successo del disco, i membri di The Band decisero di smettere di vivere come in una comune e traslocarono in abitazioni più confortevoli. Alcuni risiedono ancora nei dintorni. Ma né loro né Dylan sono più tornati a Big Pink. «Non credo che siano interessati a rivangare il passato», conclude LaSala.

                   

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