Questa Non È Una Fotografia Di Moda. Jackie Nickerson

Jackie Nickerson ha attirato la nostra attenzione per la prima volta nel 2002, quando, messa da parte la sua carriera nelle redazioni di moda, aveva

pubblicato Farm (Jonathan Cape), uno straordinario libro di fotografie scattate in Africa. I soggetti erano lavoratori dei campi in Zimbabwe, Malawi, Mozambico e Sudafrica, uomini e donne con uno strato protettivo di tessuto e materiali industriali così incredibilmente ingegnoso da far pensare alle più eccentriche creazioni di Rei Kawakubo per Comme des Garçons. Non sorprende, quindi, che il libro sia diventato un vero e proprio cult per fashion designer e stylist, o che Nickerson, americana attualmente di base in Irlanda, sia poi tornata a lavorare per le riviste, con servizi di moda, ritratti, still life e foto di paesaggio. Quasi tutti questi soggetti sono presenti nel suo nuovo libro, Field Test (Kerber Verlag), nel quale l’idea dell’indumento protettivo è spinta in una direzione ancora più astratta e concettuale. Nonostante tutte le fotografie siano state scattate prima dell’attuale pandemia, guardandole è difficile non pensare a una versione estrema dei dispositivi di protezione personale che medici e infermieri sono stati costretti a indossare in questi ultimi mesi.

Nella conversazione che apre il libro, Nickerson sottolinea di aver iniziato a concepire questa serie nel 2014, quando il Time l’aveva inviata in Liberia a fotografare gli operatori sanitari che curavano l’Ebola. In qualità di persona preoccupata dall’impatto della plastica sull’ambiente, questa esperienza l’ha fatta riflettere sulla “funzionalità in tempi di crisi”: «Mi sono resa conto di quanto la plastica sia preziosa, di come le barriere che crea possano salvare delle vite».

Jackie Nickerson, “Shark”, 2019, da “Field Test” (Kerber Verlag).

© FOTO © JACKIE NICKERSON. COURTESY DELL’ARTISTA E JACK SHAINMAN GALLERY, NEW YORK.

Ma se i prodotti in plastica sono essenziali per contrastare la diffusione di virus letali, a lungo termine costituiscono comunque un pericolo per la natura. E benché le fotografie di Field Test tengano in considerazione entrambi questi aspetti, la loro prospettiva è decisamente distopica e l’umorismo nero che le contraddistingue non cancella le gravissime preoccupazioni che implicano. «L’intera serie ha a che vedere con una sorta di trauma collettivo», afferma Nickerson. «L’idea è che tutto è connesso, che quello che mangiamo e il modo in cui produciamo il cibo è parte essenziale della vita. Quando modifichiamo la natura, modifichiamo la nostra realtà». La serie si basa in gran parte su un libro precedente, Terrain (TF, 2013), nel quale i braccianti agricoli africani erano ritratti carichi delle merci che trasportavano. Lì, fa notare Nickerson, le persone «appaiono mascherate dalle cose stesse che producono, così da creare una figura ibrida».

In Field Test, dove la natura è praticamente assente, questi ibridi risultano inquietantemente alieni. Le figure sono inguainate in reti di poliestere, mascherate con imballaggi di plastica e rivestite dalla testa ai piedi da teli cerati in polipropilene. Una di loro esplode in una nuvola bianca di imballo in polistirolo, simile a un respiro di ghiaccio. La donna nella fotografia qui sopra si ritrova legata con una corda di nylon rosa a un pesce di plastica gonfiabile, più immobilizzata che protetta. Al pari di una scultura vivente, somiglia a una delle divertenti collisioni tra umano e inanimato di Rachel Harrison o di Erwin Wurm. Ma la sensazione di pericolo che incombe su Field Test ne insidia l’umorismo, e lascia trapelare una eco angosciosa dell’incontro erotico nel film Il mostro della laguna nera.

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Vince Aletti è critico fotografico e curatore. Vive e lavora a New York dal 1967. Collaboratore di “Aperture”, “Artforum”, “Apartamento” e “Photograph”, è stato co-autore di “Avedon Fashion 1944-2000”, edito da Harry N. Abrams nel 2009, e ha firmato “Issues: A History of Photography in Fashion Magazines”, pubblicato da Phaidon nel 2019.

Da Vogue Italia, n. 843, dicembre 2020

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