Tyler Mitchell non vuole che il suo volume di debutto I Can Make You Feel Good (Prestel) rimanga un bell’oggetto inutilizzato sul vostro tavolino da
© Photography Tyler Mitchell
Con un’identità che lo definisce tra i Millennial e nell’era di Tumblr, il fotografo 25enne di Atlanta ha già all’attivo numerosi traguardi raggiunti. Grazie al background da regista, già da adolescente, Mitchell ha trovato il successo creando video home made a tema skate per poi produrre un libro, nel 2015, intitolato El Paquete, che rappresentava la scena skate a L’Avana, a Cuba.
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Nel 2018 arrivano campagne dalle immagini innovatrici per marchi come Comme des Garçons e JW Anderson. Un talento eccezionale della sua generazione in grado di traghettare la narrativa su territori inesplorati, Mitchell ha fatto storia fotografando Beyoncé per la copertina di settembre 2018 di Vogue America – il primo creativo di colore ad ottenere la commissione nei 128 anni di storia della rivista – dando vita ad un’immagine che è ora esposta nella Smithsonian’s National Portrait Gallery.
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Uno splendido scambio sull’arte contemplativa, I Can Make You Feel Good parla da sé anche se Mitchell afferma che userebbe le parole “sfaccettato, intimo, autonomo e immersivo per descriverlo”. Utilizzando il titolo della sua prima monografica del 2019, allestita al Fotografiemuseum di Amsterdam, il volume presenta immagini scattate tra il 2016 e il 2019. È un’immersione sfrontata in vari stati e condizioni – all’aperto, in intimità e in movimento – del corpo nero in tutta la sua gloria, che si serve, al contempo, di un simbolismo a vari livelli per porre l’accento sulle avversità affrontate dalla comunità Black americana intrinsecamente afflitta dalla supremazia bianca e dal razzismo sistemico e dissimulato.
Di seguito, il noto astro della fotografia condivide la storia dietro I Can Make You Feel Good e parla dell’importanza della rappresentazione nel mondo della moda.
I Can Make You Feel Goodillustra la gioia del popolo nero in maniera libera e incontrollata. Quali sono i tuoi primi ricordi legati all’utopiaBlack?
“Vengo dalla periferia di Atlanta, in Georgia, il che significa che la mia infanzia è stata costellata dalla natura e da spazi verdi rigogliosi. Sono figlio unico, dal carattere pensoso e riflessivo, e durante le estati alla fine della scuola, ero felice di andare al campo estivo dove a rallegrarmi erano piaceri semplici e banali, se vogliamo, come stendermi sull’erba con gli amici, cose che tendiamo a dare per scontate ora come ora”.
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Il titolo del volume è lo stesso della tua mostra monografica di debutto del 2019. Cosa ti ha spinto a creare il libro?
“La mostra è una porzione di idee e immagini che animano uno spazio fisico mentre il volume rappresenta la mia opera nella sua interezza e tutto un periodo della mia fotografia. Da persona che ama collezionare photo book, penso siano il modo migliore per un fotografo di farsi conoscere e apprezzare. Ha a che fare con l’aspetto manuale della creazione e con la natura esaustiva del libro; in questo caso, in particolare, ho scelto di tessere in maniera fluida film, fotografia, opere personali e su commissione. Man mano che lo spettatore si immerge nelle sequenze, viene meno per me qualsiasi gerarchia tra ognuna di queste aree, e trovo che sia una cosa meravigliosa”.
‘Boys of Walthamstow’ è l’immagine di copertina del volume. Quali sono i tuoi ricordi più cari legati a questo set fotografico?
“Senza pensarci troppo, l’immagine di copertina voleva essere una splendida rappresentazione del corpo nero – amo la sua semplicità. Nel 2018, mi trovavo a Londra e volevo scattare un progetto personale con i ragazzi in una palude, che fosse libero da ogni vincolo e costrizione. Ho contattato la mia casting director Holly Cullen che mi ha trovato un gruppo di ragazzi favolosi. Abbiamo scattato le immagini alle Walthamstow Marshes a Est di Londra e ricordo di aver pensato che quell’immagine fosse particolarmente magica.
“Appena prima di scattare quella foto, avevo detto loro di giocare all’acchiapparella, quindi l’immagine è il momento successivo in cui si rincorrono, a petto nudo, scorrazzando e godendosi la vicinanza fisica ma ci sono anche pesanti riferimenti storici intessuti come le “chain gang” - le squadre di prigionieri incatenati e utilizzati come manodopera nei lavori più faticosi spesso pure forma di punizione: un sistema utilizzato in prevalenza negli Stati del Sud.
L’immagine è pervasa anche da un’atmosfera di positività che amo molto. Tutti i personaggi ritratti nel volume sono amici e hanno un ruolo nella mia vita privata”.
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Qual è l’aspetto più importante per te nell’atto di fotografare un corpo nero?
“Tutte le immagini sono state scattate collaborando direttamente con i soggetti. Negli anni 90, molti fotografi, specialmente nel settore moda, erano quasi dittatoriali verso modelle e modelli. Il mio approccio è più aperto, preferisco la conversazione con i miei soggetti. Questo è come sono io naturalmente – curioso, collaborativo e propenso allo stupore. Non sono il principio e la fine di qualcosa ma solo una rotella di un ingranaggio. Lo spettatore è più importante di ognuno di noi”.
La fotografa Deborah Willis ti ha notato per la prima volta quando eri ancora uno studente alla New York University’s Tisch School of the Arts. Nel suo saggio incluso nel volume, scrive: “Sono stata affascinata dall’opera di Tyler in quanto ho visto quanto fosse dedito a comprendere immagini per poi modificare la narrativa visiva esistente sull’essere nero, maschio, giovane e creativo”. In che modo ritieni che il tuo lavoro si sia trasformato da allora?
“Ho sperimentato un’evoluzione passando dall’essere un ragazzino che faceva video di skateboarding con una prospettiva incentrata essenzialmente sull’aspetto dello sport e dello stile. Ho iniziato a considerare tutte le idee autobiografiche sulla Blackness e l’identità di donne e uomini neri nella mia comunità. In termini di linguaggio, ci sono probabilmente evoluzioni nelle immagini che provengono semplicemente dal mio subconscio. Persone come Deborah mi hanno visto crescere e forse i loro scritti dimostrano proprio questo in un certo senso”.
Cosa vorresti che provasse lo spettatore nell’osservare le tue immagini?
“Quello che voglio non ha quasi nulla a che fare con lo spettatore e il volume stesso. Ha a che fare con ciò che il pubblico, e chi guarda in generale, riceve dal libro e ciò che ci porta dentro. Mi auguro che nell’esperienza di fruizione del volume ci sia un apprezzamento della moltitudine di immagini in cui il corpo nero è adagiato in placidi momenti di contemplazione ma anche in movimento – nel suo stato più attivo – e di come tutti questi stati possano essere liberatori”.
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La rappresentazione nella moda continua ad essere un tema molto attuale. In che modo il settore può affrontare l’inclusività davanti e dietro l’obiettivo della macchina fotografica?
“Sta in gran parte alla moda capire come farlo. Non è tanto responsabilità dei creativi neri insegnare e guidare la gente attraverso questo processo. Inclusività significa riflettere veramente su come è il mondo quando si esce al di fuori della bolla della moda, che non è rappresentativa di come è il mondo vero. Questo darà vita a un dialogo più diversificato e interessante. Non si tratta di gridare ai quattro venti che sei più inclusivo ma di renderlo un dato di fatto perché è questo che vuoi essere autenticamente”.
“Per anni, gli artisti neri hanno chiesto: ‘Perché la mia opera sulla mia vita, le mie esperienze e le vite delle persone attorno a me non è considerata parte del canone dell’arte storica e della fotografia? ’ E quella domanda continuerà a essere posta. Occorre fare un’enorme opera di pressione affinché più persone Black e Brown compaiano di fronte all’obiettivo della macchina fotografica. A me pare si stia raggiungendo l’apice di questo tipo di conversazione e mi auguro che continui”.
Che consiglio daresti ad aspiranti giovani fotografi di colore?
“Non abbiate paura a dire di No. Spesso ci viene detto che le opportunità bussano una volta sola, del tipo ‘Accetta subito e non fare domande’. È così che molti artisti neri finiscono per firmare contratti di poco valore. Il sistema suprematista bianco continua a esistere a causa di termini contrattuali che non proteggono gli artisti. Fate migliaia di domande e abbiate il coraggio di non accettare. So che è dura perché a volte ci sono opportunità di cui sentiamo di avere bisogno ma la realtà è che non abbiamo bisogno di nulla che sfrutta le nostre esperienze e non è per noi di alcun beneficio”.
© Photography Tyler Mitchell / Prestel