Spiccando il volo. Intervista a Nico Vascellari

“I Don’t Give A Fuck” non è il classico nome che si darebbe a un peluche. Ma tant’è, il pupazzo che Nico Vascellari ha fabbricato

con quella sua scoppiettante fucina di idee che è Codalunga (costola del suo studio dedita alla produzione di anagrammi e manifesti attivisti) in occasione dello scorso Natale, proprio così è stato battezzato. Un Nico himself con becco e alucce, zoomorfo per metafora. «Si tratta in realtà di un’edizione che riprende la mia prima performance, quasi vent’anni fa a Rotterdam» (che ottenne per contrappasso dopo aver incidentalmente calpestato i dipinti del coinquilino-curatore). «Il pubblico era chiuso a chiave dentro la galleria e dalle vetrate guardava me che tentavo di spiccare il volo in mezzo alla strada».

“I Don’t Give a Fuck” è la performance del 2002 che ha ispirato il peluche omonimo, realizzato per codalunga.org.

Imparava a volare comeYves Klein?
Più come nei cartoni animati. Pensavo alle loro sventure e mi chiedevo come mai ci facessero tanto ridere.

Perciò si è vestito da uccello?
Considerato che sarei stato in imbarazzo a stringere le mani dei presenti, immaginai un vestito che m’impedisse di farlo.

Molto appropriato a questi tempi. Ne ha fatto il suo alter ego? 
Nelle mie prime performance sono sempre stato vestito da animale: Uccello Giallo, Coniglio, Scimmia, Piccione, Talpa. Ho vissuto una settimana al buio come le talpe in un tunnel di legno. Creano un legame tra regno sotterraneo e celeste, uniti e divisi al contempo da un elemento: la terra.

Opera del 2002 intitolata “Wilde Konjin”.

Negli ultimi lavori torna al mondo animale: l’anno scorsoHorse Powerera un catalogo di specie la cui iconografia ha penetrato l’industria dell’automobile...
E per il video che ha debuttato a Villa Borghese lo scorso autunno, Visita Interiora Terrae, ho trascorso quattro notti, in assoluto silenzio, in osservazione con una camera a infrarossi nella foresta del Cansiglio. 

E viene trasportato da una lettiga per animali. Il rapporto natura-cultura è un tema che le appartiene?
Immagino di sì, ma lavoro per ossessioni subitanee. Una volta, durante una rumorosa performance, d’improvviso, cominciò a volteggiarmi attorno un’ombra: una falena si posò infine sul mio naso. Marina Abramovic, avendo assistito alla scena, disse che era l’annunciazione di un cambiamento positivo.

Era vero?
Assolutamente. Al punto che decisi di concludere quell’anno con una sorta di mio funerale: la cassa in vetro piena di neve veniva trasportata a valle della montagna e posata in chiesa. Mentre attendevamo che la neve si sciogliesse, un amico suonava l’organo.

(Continua)

In apertura: opera del 2002 intitolata “Humans Are Monkeys”.

Leggete l'intervista integrale sul numero di gennaio di Vogue Italia, in edicola dal 7 gennaio

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