Sfilate o performance? Quando la moda diventa teatro

L’esasperazione dell’aspetto puramente commerciale delle passerelle sembrava aver preannunciato l’imminente fine dell’epoca delle modelle e delle sfilate, ormai, a detta di molti, senza più alcun

senso. In realtà, dopo un lungo periodo di minimalismo performativo imperante, in cui il distacco espressivo dal pubblico da parte dei corpi in passerella era d’obbligo, in tempi recenti si è intensificata la pratica di commissionare a coreografi, artisti e performer la realizzazione scenica dellesfilate. In diversi casi gli show non si presentano più, dunque, come semplici esposizioni di prodotti, ma esprimono un potenziale performativo capace di condurre ad una riflessione più profonda, trasformando lo spazio ospitante in un luogo in cui avviene qualcosa, un atto di resistenza, una presa di posizione.

Come possiamo interpretare, dunque, questa nuova volontà di liberazione del corpo dall’estremo controllo a cui è stato sottoposto nel corso degli anni? 

Sfilata di Alexander McQueen, 1996

Antesignano di tale tendenza, Alexander McQueenfu uno dei massimi esponenti di questa modalità espressiva, a partire dalla fine degli anni ‘90. La meraviglia, la repulsione ed il terrore suscitati dai suoi celebri e spettacolari show come “No.13”, “VOSS”, o “Deliverance”, (messa in scena con il contributo del coreografo Michael Clark), richiamano continuamente il concetto di sublime. Modelle sofferenti, coperte da abiti stracciati, insanguinate, nascoste dietro maschere tenebrose o abiti che le fanno somigliare animali inquietanti, le loro movenze teatrali e a tratti violente, turbano, sconvolgono, risvegliano lo spettatore dal sonno della passerella. Il disgusto, lo smarrimento e il turbamento che le performance di McQueen hanno provocato, ci hanno regalato un’esperienza sensoriale profonda e indelebile, ponendoci di fronte all'efferatezza dell'uomo, facendoci entrare in contatto e visualizzare il nostro lato più istintivo, “animale”, appunto. 

Modelle e ballerini nella sfilata di Alexander McQueen in collaborazione con Michael Clark, ottobre 2013

Nella sua attuale ritornata centralità, il linguaggio corporeo, a lungo negato, si costruisce come materia, come mezzo espressivo. Analizzando il corpo nelle sfilate bisogna notare che tale corpo, la cui identità è definita, è allo stesso tempo mutevole nel gioco delle apparenze. E dunque, se il vestito è il linguaggio del corpo, è al corpo e alla sua centralità che bisogna volgere lo sguardo. Così oggi la moda e le sfilate in particolare sono esibizione del corpo stesso: degli abiti conta ormai soprattutto la loro capacità di mostrare e plasmare lo sguardo verso corpi che sono sempre più orgogliosi di sé nella loro varietà estetica, sociale e di genere. Sempre più autonomi e liberi, come nella narrativa tribale di Rick Owens, o in quella visionaria di Alessandro Michele, dove diventano metafora della moltitudine di specie. 

Pat Boguslawski, movement director di Maison Margiela, dirige sulla scena un corpo che parla in prima persona con la propria presenza e i propri movimenti. Parti anatomiche come la pelle, i capelli mutano e diventano pari degli abiti stessi: strumenti per trasformarsi in un ibrido che trascende la stessa natura umana. I corpi sono cangianti, gli abiti e il make up diventano estensioni, trapiantate nel corpo. Il corpo che diventa protagonista deve, allora, essere all’altezza della sua funzione seduttiva, è un corpo ambiguo, in costruzione. La mutazione non riguarda più solo l’abito, ma investe direttamente il corpo attraverso l’elaborazione del movimento. Le movenze diventano segnali marcati dell’affermazione dell’io. Un tributo alla pluralità, come la performance progettata da Francesco Risso, in collaborazione con Michele Rizzo, per lo scorso autunno/inverno di Marni. Seguendo tale narrazione, il rifiuto dei codici e dei modelli umani prestabiliti si rende ancora più visibile.

La performance smuove la parte irrazionale che è in noi nella misura in cui gli interventi dei soggetti sono capaci di farci immedesimare in ciò che vediamo, e questo è importante in un mondo in cui sentirsi toccati non è quasi più possibile. Lo spazio risulta quindi trasformato sia per il performer che per il pubblico: la sua condizione è resa mutevole, tattile, viene influenzata dallo stesso body language. Oggi, la passerella plasma figure che aspirano a forme surreali, chimere, esseri in parte umani, in parte leggiadri volatili o sinuosi serpenti. Uno spettacolare scenario narrativo dell’ultima rappresentazione umana, mentre già si affacciano i nuovi corpi ibridi. 

In apertura: Shalom Harlow durante la sfilata di Alexander McQueen in cui venne spruzzata di pittura, 1999

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