Il testimone. Intervista a Loïc Prigent

Nella cultura contemporanea, la moda rappresenta un fenomeno estetico globale del quale il prodotto occupa solo una piccola parte. In questo immaginario multi-sfaccettato, la comunicazione

attraverso l’immagine in movimento svolge un ruolo sempre più cruciale. Il merito è di alcuni innovatori che hanno saputo trasformare il mestiere di giornalista di moda in una forma di videoscrittura capace di connettere cultura, brand e pubblico. 

Uno di loro, forse il più rilevante a livello internazionale, è il documentarista parigino Loïc Prigent.

Crede che si debba parlare della videocomunicazione di moda come un nuovo “genere” nella cultura contemporanea?
Può essere interessante classificare i diversi tipi di produzione, dal più artistico al più giornalistico, passando per il documentario, i filmati delle sfilate, i video degli influencer in prima fila, fino al making of. Ma quel che trovo veramente stimolante e innovativo sono i mini-video di moda di TikTok e le Insta-stories che scompaiono in 24 ore. Dicono molto sulla natura della moda.

Un prodotto così effimero può avere un impatto sul mercato?
Sì, ma è difficile programmarne la portata, perché è cosa inedita. Occorre sapere cosa vuole il pubblico per scegliere la lingua e il mezzo giusto! Purtroppo i brand ancora non sanno bene chi guarda queste immagini e perché lo fa. Per esempio, quando io ho iniziato a pubblicare video su YouTube, ho scoperto un ritmo narrativo molto specifico per questo medium e ho visto che anche i video più lunghi, oltre quaranta minuti, erano seguiti da un pubblico vasto e fedele. 

Frame dai video: “Jacquemus: that show in the field! Feat. Lena Situations!” di Loïc Prigent, (Jacquemus P/E 21).

E questo pubblico diverso le ha permesso di capire come orientarsi nei nuovi media?Assolutamente. Prendiamo l’esempio del mio video con il comico Just Riadh che commenta l’ultima sfilata di Dior Homme. Ha ricevuto oltre diecimila commenti, spesso entusiastici. Ed è stato interessante constatare che le persone interessate a Riadh non guardano la Tv e non comprano riviste di moda. Insomma, se faccio un reportage televisivo o scrivo per un giornale, quel pubblico non ho nessuna possibilità di raggiungerlo. Ma posso farlo via YouTube, sapendo che chi guarda e commenta è un potenziale acquirente, catturato da quel flusso di immagini e commenti che incarna la fascinazione per il marchio. Non a caso, negli ultimi anni il fatturato del settore è decuplicato, poi moltiplicato per dieci e poi ancora per dieci!

Durante la pandemia i brand hanno scelto di comunicare sempre di più con i video. Crede che la gente lo apprezzi?
Le maison producono molti film perché lo richiedono i social media. Pensano in termini di “formato” ancor prima di riflettere sullo storytelling. È il modo di fruire ogni specifico medium che determina il contenuto. Raramente chi lo realizza ha accesso alla “storia” dietro la collezione. Quella è immaginata da un team di designer che, per moltissime ragioni, non comunica con chi realizza le immagini... Diciamo che il brand, oggi, non funziona proprio come una tavola rotonda attorno alla quale tutti discutono liberamente. Questo dà risultati molto vari, a volte di grande successo, con ottimi spunti creativi, altre volte meno.

(Continua)

Oltre a numerosi documentari, Prigent ha prodotto libri di citazioni e modi di dire raccolti dietro le quinte della moda, tra cui I Love to Hate Fashion: Real Quotes and Whispers Behind the Runway (Cernunnos, 2021) e Passe-moi le champagne, j’ai un chat dans la gorge (Points, 2020).

In apertura: Loïc Prigent, al centro, con Hyacinthe Lapinn e Clement Duche, in una foto backstage di Julien Da Costa.

Leggete l'intervista integrale a Loïc Prigent sul numero di febbraio di Vogue Italia, in edicola 

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