Mostre 2021. Luisa Lambri e Zehra Doğan al PAC di Milano

Mostre2021: tre buoni motivi per visitare il PAC

Il PAC Padiglione d’Arte Contemporanea di via Palestro, a Milano, è di nuovo aperto al pubblico, dopo

uno stop lungo quasi quattro mesi. Ci sono almeno tre motivi per cui vale la pena organizzare una visita (da martedì a venerdì, dalle 10 alle 19.30, il giovedì fino alle 20.30 salvo nuove disposizioni, la prenotazione è consigliata ma non obbligatoria su www.pacmilano.it).

Luisa Lambri, Untitled (Barragan House, #28) 2005 C-Print, 86 x 96 cm Courtesy Galleria Raffaella Cortese, Milano e Thomas Dane Gallery © Barragan Foundation, Switzerland, owner of the copyright on the work of Luis Barragan Morfin

Il primo si chiama Luisa Lambri. No, non è di quelle artiste che vedrete mai su una diretta Instagram: Luisa Lambri ha l’indole pacata di chi è nato sul lago (il suo è quello di Como) e il piglio asciutto di chi preferisce far parlare i suoi lavori (apprezzati dal pubblico più vario, dalle Biennali di Venezia alla Tate di Londra). Nello specifico, si tratta di fotografie in bianco e nero che ritraggono architetture. In giornate come queste, gli scatti di Luisa Lambri hanno il valore delle cose che meritano attenzione: il suo occhio, e di rimando anche il nostro, si sofferma sui dettagli. Possono essere spiragli di luce di una finestra, il gioco delle fessure di una persiana, l’angolo smerigliato di un interno. Lambri è sedotta dall’architettura modernista e dal minimalismo americano: ama l’armonia composta e predilige le soglie, le attese, i passaggi tra l’interno e l’esterno. Più che una mostra, quella allestita al PAC fino al prossimo 30 maggio, per la cura di Diego Sileo e Douglas Fogle, è un progetto artistico in cui si presenta, scandita nelle tre sale al piano terra e negli spazi al primo piano, una ricca selezione di scatti, realizzati tra il 1999 e il 2017, dedicati alle “ossessioni” dell’artista italiana: Lucio Fontana, Lygia Clark, Donald Judd, Alvaro Siza, Walter Gropius.

Il consiglio è di prendersi del tempo: le fotografie di Luisa Lambri non sono appariscenti né immediate. Entrati al PAC troverte la serie dei “tagli”, omaggio allo Spazialismo di Fontana, poi si prosegue, di serie in serie, in  bianco e nero e molteplici sfumature di grigio. «Non uso la fotografia per documentare l’architettura, ma per creare immagini», ci ha detto l’artista. Ed è proprio così: pur sforzandovi, con difficoltà riconoscerete gli edifici da lei scelti quale soggetto fotografico, perché il suo occhio si posa non sull’insieme, ma sul particolare all’apparenza poco significativo. Il senso sta nello spazio in cui le foto sono esposte.

Luisa Lambri, Untitled (Casa Fernando Millán, #01) 2003 C-Print, 84 x 68 cm. Courtesy Galleria Raffaella Cortese, Milano e Thomas Dane Gallery

E qui veniamo al secondo motivo per cui vale la pena entrare al PAC in queste settimane: questa mostra permette, per una volta, di concentrarsi anche sul “contenitore”. Luisa Lambri si è infatti messa al servizio dell’edificio progettato nel 1947 da Ignazio Gardella e ce lo fa (riscoprire) grazie a una serie di rimandi tra le simmetrie delle sue foto e quelle delle sale. Si ha così la piacevole sensazione di trovare le cose al posto giusto.
La “passeggiata” nel parterre che chiude il percorso vale, da sola, la mostra: qui troviamo, esposti su cavalletti trasparenti ideati da Lina Bo Bardi nel ‘57 per il Museo di Arte Moderna diSan Paolodel Brasile, una serie di scatti che paiono “rispecchiare” il contesto. Le foto sono rivolte verso il giardino del PAC, dove si ergono i magnifici Sette Savi di Fausto Melotti: si cammina tra i cavalletti e le vetrate del museo, tra gli scatti di Luisa Lambri, l’architettura di Ignazio Gardella e le idee di Lina Bo Bardi, sospesi (magari!) tra Milano e San Paolo, tra la natura impressa nelle foto e quella, viva, che c’è all’aperto. E si esce rinfrancati da tanta composta bellezza.

Luisa Lambri, Untitled (100 Untitled Works in Mill Aluminum, 1982-86, #01) 2012. C-Print, 79,39 x 94 cm. Courtesy Galleria Raffaella Cortese, Milano e Thomas Dane Gallery

C’è però una deviazione dal percorso, che vi consigliamo di fare, ed è il terzo motivo per cui vale la pena venire al PAC.  Salite al primo piano: qui, nella Project Room, è allestita Il tempo delle farfallediZehra Doğan, artista turca poco più che trentenne, che ha pagato con oltre due anni di carcere il suo attivismo. Giusto tre anni fa veniva scarcerata dalla prigione di Tarso, prima di lei erano “evasi” – in modo rocambolesco – i suoi lavori, realizzati su materiali di fortuna: pezze e pezzuole, camicie, stracci.

Zehra Doğan, Özdinamik, Auto-dinamica 2017, carcere di Diyarbakir. Penna a sfera, caffè, curcuma, succo di prezzemolo su giornale, 67 x 56 cm

© Jef Rabillon

Per la sua liberazione si sono spesi molti artisti, incluso Banksy, molti i riconoscimenti, anche in Italia. Femminista e attivista, ora esule a Londra, Zehra Doğan  al PAC ha presentato una serie di progetti online fin dallo scorso novembre, ma ora è finalmente visibile anche un suo intervento fisico, in attesa di una serie di performance a data ancora da destinarsi.
È solo una saletta, ma struggente: Il tempo delle farfalle. Dedicato a Patria, Minerva, Teresa Mirabal, è un omaggio ad Aida Patria Mercedes, Maria Argentina Minerva, Antonia Teresa Mirabal, le tre sorelle che, con il nome di battaglia Las Mariposas (le farfalle…) lottarono contro la dittatura del dominicano Rafael Leònidas Trujillo. La storia è nota: il 25 novembre del 1960 le tre donne si recarono in carcere a visitare i mariti, detenuti politici, ma caddero in un’imboscata e furono trucidate, dopo essere state torturate. L’Onu ha dedicato proprio alla loro memoria l’istituzione del 25 novembre quale Giornata internazionale per l’eliminazione della violenza contro le donne.
Zehra Doğan nelle sue opere d’arte su tessuto, con quelle immagini femminili così potenti e con opere-documento come la camicia sui cui le sue compagne di cella le lasciarono dei messaggi, omaggia la tempra delle sorelle domenicane e ci invita a una nuova, potente sorellanza.

In apertura: Zehra Doğan, Senza titolo, 2017, carcere di Diyarbakir Miscele e ricamo su tessuto 35 x 25 cm

Zehra Doğan, Fatıma’nın Eli, Mano di Fatima. Novembre 2018, carcere di Diyarbakir Tè, caffè, ricamo, penna a sfera su federa 58 x 42 cm

© Jef Rabillon

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