Arte e moda sostenibile si fondono nei capi della giovane designer argentina Clara Pinto. Il suo lavoro, sensibile e fortemente emotivo, è il risultato di una
Perché hai scelto di lavorare nell’arte e nella moda?
Credo perché fosse quello il linguaggio con cui sapevo esprimermi. Fin da quando ero molto piccola ho sempre frequentato corsi d’arte dopo la scuola. E questa cosa mi ha sicuramente influenzato, utilizzo ancora oggi molte delle tecniche che mi hanno insegnato da bambina. Oggi, dopo qualche anno di questo lavoro, sono felice di affermare che è la cosa che mi piace di più. La cosa che mi entusiasma di più è far sentire qualcuno più sicuro di sé, più forte, quando indossa un abito che ho creato. L’arte e il design sono condizionati dal cambiamento sociale e contribuiscono a effettuarlo. Per me è un enorme privilegio essere in grado di far sentire le proprie idee e creare in accordo con esse.
Raccontaci dei tuoi primi passi nel mondo della moda.
Facevo avanti indietro fra la moda e la scuola d’arte. Gran parte delle cose che so fare le ho imparate grazie alla mia curiosità perenne, facevo tutti i corsi possibili e immaginabili. Quando ero all’università ricordo che ero sempre a caccia di mentori, gruppi di critici d’arte, qualunque cosa potesse aiutare a dare più spessore e valore al mio lavoro. Il mio primo lavoro a Londra è stato con la designer danese Martine Jarlgaard nel 2015; era molto impegnata nella moda sostenibile, ogni tessuto veniva tracciato per garantire che fosse al 100% bio e prodotto in modo etico. Con lei
abbiamo anche lavorato alla prima sfilata al mondo in Realtà Aumentata per il calendario ufficiale della London Fashion Week. Dopo sono passata a lavorare con Peter Pilotto per l’atelier, con dei tecnici degli indumenti.
Arte e moda vanno a braccetto nel tuo lavoro. Come riesci a farli convivere in modo armonico?
I tessuti che creo sono piuttosto complessi, li considero opere d’arte. Di solito presentano tanti strati diversi: vengono infeltriti, dipinti, ricamati ecc. Passo mesi a creare i tessuti prima ancora di pensare alle forme. E quello è il momento in cui mi domando se non sarebbe il caso di incorniciare il tessuto e considerarlo ‘arte’. Ma non lo faccio, trovo sempre un modo più entusiasmante e più lungo per dare vita a questi tessuti. Non è solo il desiderio di creare abiti che ispira la mia pratica, è tutto quello che succede dopo. Le collaborazioni, i film, lo styling, la produzione.
Com’è per un’argentina vivere a Londra?
Se devo essere sincera, mi ci è voluto un po’ per abituarmi. Sono molto grata per le opportunità che ho avuto. Non c’è bisogno di dire che di solito sono l’unica sudamericana in certi gruppi di creativi. Ma qui a Londra ogni singola persona ha un background, una tradizione e una cultura diversa, la città si nutre quello.
© Kinga Podsiadlo PHOTOGRAPHY
Credi che le tue origini influenzino il tuo lavoro?
Le mie radici sono presenti in tutto quello che faccio, nel modo in cui mi relaziono con le persone, nel mio rapporto con i clienti, nell’approccio ai materiali, nella mia resilienza, nel fatto che sono una outsider e nella mia empatia. È quello che mi ha reso ciò che sono.
Puoi dirmi qualcosa di più del processo creativo e dei materiali che usi nel tuo lavoro?
Dal momento che lavoro con i materiali di scarto di varie industrie, me le procuro personalmente. Vado nelle fabbriche, spiego come lavoro, cerco di stabilire un rapporto solido e prendo i materiali. In tutte le mie collezioni ho sempre usato la lana. C’è una parte della lana della pecora, la parte bassa, che viene di solito scartata, è molto difficile pulirla e ottenere lana di qualità. Ed è qui che entro in scena io. La divido, a volte la pulisco, la tingo con tinture vegetali e la infeltrisco per ottenere tessuti a trama aperta. Il mio atelier è pieno di sacchi di lana sporca e maleodorante da tutto il mondo.
Parlami delle nuove collezioni.
Negli ultimi mesi ho lavorato su una collezione in cui ho inserito plastica biodegradabile. Ovviamente, a causa della pandemia, la collezione è stata ideata in un periodo molto buio, che mi ha portato a immaginare scenari possibili in cui gli umani indossano la plastica, al sadomaso. Un aspetto per me particolarmente interessante perché ho ritrovato molti concetti comuni alla pandemia e alle pratiche sadomaso: la protezione, la minaccia, il soffocamento, la paura, la
fiducia, la resa. Sto inserendo e preservando materiali organici nella plastica per creare abiti lunghi, cappotti e cappelli.
Cosa si deve fare per diventare un giovane designer sostenibile?
Si parla molto del fatto che si debba essere completamente sostenibili per essere rispettati come giovane designer. Credo che queste tematiche a volte siano affrontate nel modo sbagliato. Anche se faccio di tutto per procurarmi i materiali in linea con i miei principi, non sono i giovani creativi il problema. I creativi come me cercano di fare capi di qualità che il cliente comprerà in modo consapevole, pagando quello che è giusto pagare, prendendosi cura del capo come dovrebbe essere, eliminando il problema del consumismo e della fast fashion. Di solito non si utilizzano materiali in avanzo. Il problema nasce quando dobbiamo aumentare la produzione, è una vera sfida restare sostenibili come quando si produce su scala più piccola. Ma siamo comunque un passo avanti, perché se si inizia in modo consapevole, è più facile crescere e restare così.