Wish you were here: intervista a Roisin Kiberd

A trentadue anni, l’irlandese Roisin Kiberd è una veterana di Internet e non una qualsiasi: è come se fosse sopravvissuta a due guerre mondiali, al Vietnam

e al conflitto iracheno della Rete. Nata a Dublino nello stesso mese e anno (marzo 1989) in cui debuttava nella sua forma attuale l’invenzione di Tim Berners-Lee, Roisin Kiberd è cresciuta con Google per genitore, ha frequentato social media noti e oscuri, vivendo online amore, amicizie, interessi, lavoro; dando “voce” su Twitter a un formaggino, occupandosi di start-up, poi di inchieste giornalistiche su trolls, cospirazionisti e altri buchi neri del Web. Vivendo giorno e notte online, ha perduto il senso del tempo e il confine tra il corpo e i suoi guai – alternava anoressia e bulimia– e la tecnologia, barattando il sonno per una confusa eternità, il cibo con lattine di Monster Energy, allontanandosi dal contatto umano per la compagnia della luminescenza dello schermo; fino a domandarsi se il proprio corpo stesse mutando in una scoria digitale. Nel 2016 il crollo. Scrive su un foglio le password, ingoia un mese di antidepressivi con una bottiglia di rum al cocco. Si salva. Scopre di avere un disturbo borderline. Da quest’esperienza Roisin Kiberd ha tratto un libro importante, un’inchiesta scavata sulla pelle, l’autobiografia che segnerà un’epoca. The Disconnect: A Personal Journey Through the Internet, pubblicato da Serpent’s Tail, è il ritratto di un’umanità che, davanti alla tecnologia, prova sentimenti ambigui, è attratta e orfana, esausta e in pace. L’autrice ci racconta un’esistenza spesa tra scrolling e swiping.

In quale comunità online si è sentita più frustrata?
Ogni piattaforma generalista offre la sua tristezza particolare, anche se tutte portano all’inazione, sfruttando i sogni degli utenti. Più che connettere, espropriano esperienze. Intrappolati, siamo noi a fornire la benzina con cui funzionano. Lo sappiamo ma restiamo, il che produce un’ambivalenza dolorosa. Leggendo i pareri di chi lo usa molto, Twitter sembra un circo infelice in cui ripetere all’infinito gli stessi pareri. Su Facebook si va per confermare i propri sospetti e avere ragione. L’effetto comune è cancellare la nostra idea di futuro. Immaginarlo così diventa innaturale, perché ci pensano le piattaforme sulla base delle nostre scelte, di quanto già scritto, condiviso. 

Un’immagine di Peyton Fulford tratta dalla serie “Infinite Tenderness”. «Questo lavoro documenta la messa in discussione del proprio corpo, sessualità e identità, che ognuno di noi sperimenta crescendo e formandosi», spiega. «La mia intenzione è quella di creare uno spazio in cui i ragazzi queer, magari cresciuti in piccoli paesi come il mio, possano riconoscersi e accettarsi»

© csu

Con quale conseguenza? 
Snaturare la verità. Non è un caso che la mia crisi sia esplosa nel 2016, anno delle fake news. Mi arrivò una email da Instagram: diceva che, da quel giorno, sapevano di me più di quanto sapessi io e mi avrebbero mostrato solo ciò che mi piaceva. Se si estrae il tempo dai binari della Storia, gli eventi tornano, non viviamo una cronologia ma dentro una timeline artificiale che mescola passato e presente.

Lei scrive: «In un mondo costruito su ciò che è familiare, non c’è nulla da imparare». Cosa significa? 
Io sono femminista, ma se leggo che cosa si dice su questo tema nei social, sono delusa. È una recita accorta di posizioni ideali e non c’è certezza di come, chi scrive, possa agire nella realtà. Le piattaforme sono alla ricerca dell’utente ideale. Il sogno di Facebook è il “normcore”. Qui tutto deve essere approvabile, comprensibile. Ciò obbliga ad avere un giudizio nell’immediato, scegliendo tra bianco e nero, quando noi viviamo sfumature di grigio. Costretti a una performance, il proprio stile deve essere promosso come un brand, modellato per essere amati, mentre a noi servono idee che non necessitino approvazione. Profili lineari, igienizzati, uguaglianza obbligata: è violenza.

Associa l’esperienza online all’immagine delViandante sul mare di nebbiadi Friedrich. «Perso in contemplazione, davanti alla barra di ricerca di Google... Per sempre solo». È la solitudine, la maledizione dei social?
Sì, e il tipico consiglio per curarla è di avere più amici, il che crea un effetto paradossale, perché non è il numero a regalare una vita migliore. Internet è la tecnologia della solitudine.

(Continua)

Leggete l'intervista integrale sul numero di aprile di Vogue Italia, in edicola dal 7 aprile

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