Avere, essere, sapere. O del collezionismo

Il collezionismo è una strana ossessione. Mania, desiderio di appropriazione dell’universo, del bello, della rarità, ma anche di raccolta, selezione e classificazione di opere e artefatti

di altre epoche, per vivere tutte le vite possibili, attraverso gli oggetti che rappresentano un tempo storico preciso, antico o contemporaneo. L’Enciclopedia del sapere racchiusa in una stanza, la Wunderkammer, è forse la sintesi di questo impulso irrefrenabile. Avere è Essere. Per Erich Fromm, lo psicanalista e sociologo tedesco, due termini in antitesi. «L’avere si riferisce alle cose e le cose sono fisse e descrivibili. L’essere si riferisce all’esperienza e l’esperienza umana è in via di principio indescrivibile», scriveva nel 1976 in “Avere o Essere?”. E il sapere che passa attraverso la conoscenza degli oggetti? È forse meno nobile dell’esperienza? In una delle ultime Biennali d’Arte di Venezia, nel 2013, lo aveva sintetizzato così il curatore, Massimiliano Gioni. La mostra era ispirata all’idea utopistica dell’artista Marino Auriti che, nel 1955, deposita all’ufficio brevetti statunitense il progetto di un museo immaginario che avrebbe dovuto ospitare tutto il sapere dell’umanità, “Il Palazzo Enciclopedico” – un edificio di 136 piani, 700 metri di altezza, destinato a occupare oltre 16 isolati della città di Washington. 

Iris Apfel, icona della moda, con alcuni abiti del suo straordinario guardaroba.

© FOTO COPYRIGHT JAMES MOLLISON.

«L’impresa rimase incompiuta», racconta Gioni, «ma il sogno di una conoscenza universale e totalizzante attraversa la storia dell’arte e dell’umanità, e accomuna personaggi eccentrici come Auriti a molti artisti, scrittori, scienziati e profeti che hanno cercato – spesso invano – di costruire un’immagine del mondo capace di sintetizzarne l’infinita varietà e ricchezza. Oggi, alle prese con il diluvio dell’informazione, questi tentativi di strutturare la conoscenza in sistemi omnicomprensivi ci appaiono ancora più necessari e ancor più disperati».

Lo stilista Paul Smith, appassionato del pedale e di abbigliamento da ciclista.

© FOTO COPYRIGHT JAMES MOLLISON.

Avere, essere e sapere: è forse così che potremmo sintetizzare le forme del collezionismo e i desideri compulsivi del collezionista. Alcune delle più ricche e importanti collezioni, infatti, formano ora il nucleo originario di altrettanti musei. Grandi personaggi degli inizi del ’900, imprenditori, finanzieri e donne dell’alta società, che hanno voluto svolgere prima di tutto il ruolo di mecenati, raccolgono importanti collezioni, poi oggetto di imponenti donazioni, per sostenere il patrimonio culturale di una città o addirittura di una nazione, lontani da intenti speculativi. Come il magnate americano Andrew Mellon, che il giorno di Natale del 1936 manda una lettera al presidente Franklin D. Roosevelt offrendogli la sua collezione d’arte per fondare una galleria nazionale, la National Gallery di Washington, o i Rockefeller, finanziatori del Metropolitan Museum e fondatori del MoMA di New York. 

Luciano Benetton ha finora commissionato circa 10mila mini opere per la sua collezione.

© FOTO COPYRIGHT JAMES MOLLISON.

«La collezione è un mondo portatile e polimorfo, non raccolta né inventario, ma exempla fidei in rebus e quanto si raccoglie forse salva dal dubbio di aver vissuto invano», scrive Amedeo Martegani, artista bibliofilo. Sì, perché scrittori, intellettuali e artisti hanno una visione molto particolare della collezione. Come André Malraux che, in opposizione alla staticità e al sapere oggettivo dei musei, concepisce nel dopoguerra, quando proliferano le istituzioni e la museografia, il “Museo Immaginario”, senza pareti, mentale, il museo del sapere, che è sempre «più vasto di quelli reali», perché l’arte è metamorfosi, cambiamento. Le opere non sono oggetti ma “voci”, e l’arte appartiene alla “vita”, alla “presenza”. Ci sono le belle immagini di Maurice Jarnoux che immortalano Malraux nella sua casa di Boulogne-sur-Seine, nel 1953, mentre “smonta” le opere dai loro contesti originali, sdraiato su un tappeto di riproduzioni fotografiche, per poi rimontarle nel suo libro.

(Continua)

I dittici sono un lavoro in divenire di James Mollison sui collezionisti e le loro collezioni.

Leggete l’articolo integrale sul numero di aprile di Casa Vogue, in edicola con Vogue Italia

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