Sweet Sixteen

Sweet Sixteen

Era il 20 maggio 2003 quando andava in onda l’ultimo episodio di Buffy l’ammazzavampiri, concludendo la “serie più memorabile” degli anni 90 secondo Tv News. Era

poi il 12 giugno 2021 quando Sarah Michelle Gellar, interprete dell’iconico teen idol, postava su Instagram la foto della festa di passaggio dalle elementari alle medie della figlia Charlotte, obbligandoci a confrontarci con la fine della nostra adolescenza. I sedici anni di molte generazioni sono stati scanditi da un prodotto di intrattenimento che ha idealizzato questo rito di crescita tramutandolo, al contempo, in una bestia da fatturato. Ogni hit è visione di feste dove il girare di una bottiglia fa conquistare un ambito bacio, diventando soundtrack delle innumerevoli prime volte e parte di una playlist di Spotify che rivela di noi più di un documento d’identità. Bacino d’utenza in assoluto più proficuo dell’entertainment internazionale, i Sweet Sixteen sono anni che generano i fenomeni culturali, eleggendo nuovi idoli a ogni decennio. L’adolescente decreta il successo di Elvis Presley, quello dei Beatles, rendendo oggi Taylor Swift la cantante più pagata del settore e accomunando i tre artisti sotto il record di un singolo al primo posto nella classifica Billboard per un anno – in tutti e tre i casi, l’età media degli ascoltatori è stata di sedici anni.

Un collage digitale di Sidney Prawatyotin, in arte @siduations. In primo piano, Zendaya, protagonista di “Euphoria”, in onda dal 2019; sullo sfondo, il cast di “Beverly Hills 90210”, serie tramessa dal 1990 al 2000. Nei suoi lavori, il creativo newyorkese inserisce celebrities o abiti couture in contesti incongrui.

© FOTO GETTY IMAGES.

Per quanto ogni era abbia definito il suo stereotipo di gioventù, il mito del sedicenne non si distingue nitidamente sino al 1974, anno della messa in onda di Happy Days sulle reti ABC. Per 10 anni e 255 episodi, lo show ha plasmato l’epitome della gioventù americana figlia del boom economico, imprimendo il suo stampo idealista sugli standard generazionali. Divenuta la serie più vista dell’emittente nel decennio 70-80, Happy Days lascia in eredità la definizione dei cliché degli sbocchi puberali, il tutto condito dal mito di un idillio giovanile dove l’unica preoccupazione è l’ardua scelta tra Pepsi e Coca-Cola.

Negli anni 90, i Sweet Sixteen iniziano ad arrugginirsi e lo zucchero diventa stucchevole come dopo troppe caramelle. Naturale decorso dei miti verso lo scontro con la realtà, gli anni di Buffy l’ammazzavampiri introducono nella narrazione il senso di inadeguatezza, il peso delle aspettative sociali che contrastano con i desideri di normalità, velando il tutto sotto la patina del paranormale e di un abbigliamento in total-black che hanno quel gusto romantico tanto facile da vendere.

(Continua) 

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