Festival del Cinema di Cannes 2021
Un capitano alto due metri, spalle larghe e occhi color del mare posa lo guardo su un’eterea biondina al tavolo
La trama
Nella suggestiva e rarefatta atmosfera degli Anni Venti il capitano di mercantili Jacob Storr scommette di sposare la prima donna che incontra: si tratta di Lizzy, una parigina raffinata che sposa immediatamente e con cui mette su casa nella capitale parigina. Assente per molti mesi l’anno, a ogni ritorno l’uomo si perde nei segreti e negli intrighi della sfuggente consorte. E, tra sorprese e colpi di scena, il matrimonio sembra davvero una barca alla deriva, anche se sorretto da un legame insolito e magnetico.
La parola al protagonista
A bordo piscina, sulla terrazza panoramica di uno degli hotel più rinomati della Croisette, il belga Gijs Naber spicca tra la folla piuttosto facilmente, anche se indossa un completo di lino total black e una semplice t-shirt bianca. Prima di sedersi sui giganteschi divani a righe stende la mano, poi la chiude per battere il pugno, per via dei protocolli di sicurezza anti-Covid 19 dell’evento. Sotto un gigantesco ombrellone da spiaggia si sente comunque il sole cocente sulla pelle, così lui si alza a ordinare dell’acqua frizzante, senza delegare a nessuno degli assistenti che si aggirano, frenetici, nelle vicinanze. Un gentiluomo, insomma, come se ne incontrano pochi.
Partiamo dall’inizio: il colpo di fulmine da cui ha origine questo melò ha qualcosa di realistico?
Per me sì, può succedere d’innamorarsi così, di colpo, di vedere quella scintilla, di provare una certa connessione. Ma il bello – o il difficile – viene dopo. Anche nelle relazioni più convenzionali di questa comunque devi trovare una via d’equilibrio e lottare per capirsi. All’inizio Jacob e Lizzy hanno uno scambio giocoso, un’attrazione che li fa riconoscere e iniziano ad amarsi.
Jacob è un maschio alpha sulle navi, ma non ha alcuna traccia di mascolinità tossica. Merito del copione scritto dalla regista?
È vero, vediamo un personaggio alle prese con insicurezze personali e di relazioni, che non si preoccupa di nascondere un lato vulnerabile perché sa che solo aprendosi può fare entrare l’altra persona, prendendosi il tempo di ascoltare e capire.
Cosa rovina la relazione?
Quello che è davvero tossico è la gelosia, ma quando si scatena ha sempre a che fare con le proprie insicurezze più che con il comportamento altrui. A me piace il fatto che Jacob non giudichi mai Lizzy. Quando si ritrova a che fare con sentimenti offuscati e arrabbiati si fa delle domande e cerca di digerire al situazione, si mette in discussione ed è pronto a cambiare. È con se stesso che lotta principalmente per migliorare.
Il matrimonio messo in scena inThe story of my wifenon è di quelli che di solito vediamo al cinema, tra urla e vendette.
Sì ed è tutto merito della regista che non usa alcuna forma di violenza. La vera lotta avviene internamente dentro Jacob, ma questa debolezza condivisa diventa forza.
Lo considera un film femminista?
Credo di sì. In un mondo in cui femminile e maschile si sfidano a braccio di ferro per avere la meglio, la sensibilità di una donna regista sa far vedere un uomo che è emotivamente tormentato, com’è giusto che sia. I maschi devono fermarsi a riconsiderare il patriarcato.
Come sarebbe stata la storia se l’avesse diretta un uomo?
Probabilmente avrebbe lasciato crogiolare il protagonista nell’autocompatimento. Invece qui si capisce che uomini e donne sono uguali e che l’uno si perde quando perde l’altra.
Cos’ha di vero questo film sull’amore?
Da uomo fidanzato (con la collega Thekla Reuten, ndr.), credo che The story of my wife mostri in maniera credibile quanto sia dannoso avere delle aspettative sulle relazioni. Se comunque non vanno come vorresti, non lasciarti andare e non aspettare che sia la vita a metterti le opportunità su un piatto d’argento.
E sulle donne?
La regista mostra un uomo che prova a capire una donna, a stare al suo passo ma – come spesso accade – non ci riesce, anche perché lei è imprevedibile e quasi ineffabile, lo tratta quasi come un giocattolo o un capriccio. Se hai demoni o ferite, trovare una connessione di coppia diventa complicato.
Sul set c’era un coordinato d’intimità?
No perché io e Lea abbiamo parlato a lungo e a fondo delle scene di sesso, lei mi ha raccontato la sua esperienza ne La vita di Adele e abbiamo condiviso insicurezze e pensieri. Non ci sono stati momenti di disagio nelle scene intime, anche se non ci conoscevamo prima delle riprese.
Qual è stata la bellezza di lavorare su un set internazionale?
La ricchezza delle prospettive è davvero incredibile e rende tutto più emozionante. Jasmine Trinca è stata sul set solo un giorno, ma con Sergio Rubini è stato davvero un piacere lavorare. Mi ha ricordato un set italiano di tanti anni fa, tra Bari e Matera, e mi ha fatto desiderare di tornare nella Penisola, magari diretto da uno dei vostri grandi registi, come Paolo Sorrentino.
Che legami ha con l’Italia?
La madre della mia fidanzata (e madre dei miei due bambini di sei e tre anni) è di Lucca, quindi nei miei figli scorre sangue italiano e per questo un po’ li invidio. E invidio anche lei, che riesce sempre ad aprire il frigo e trasformare ingredienti singoli in meravigliosi manicaretti. Io ai fornelli invece sono negato e pure a fare la spesa, guardo gli scaffali e mi domando: “Ma che diavolo è questa roba e come si prepara?”. Ora viviamo ad Amsterdam, ma il legame con l’Italia è forte.
Di questi tempi un film come questo mette in scena anche le paure individuali. Cosa la preoccupa in questo periodo?
Di perdere la connessione umana, quel contatto che ci lega, non solo perché siamo sempre più legati ai cellulari e ci lasciamo distrarre dal resto, ma perché questa distanza fisica, con la mascherina che non ti permette di vedere le espressioni facciali, crea una distanza dolorosa. E a me fa davvero soffrire.