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Walter Pfeiffer Polaroids 1972–2021 • Photo Gallery
Walter Pfeiffer
Polaroids 1972–2021
Galerie Gregor Staiger, Zurich
May 29–July 17, 2021
Ha inaugurato lo scorso 28 maggio presso la galleria Gregor Steiger di Zurigo l’importante mostra-retrospettiva dedicata agli scatti istantanei del fotografo-culto Walter Pfeiffer Polaroids 1972–2021. La mostra, della quale è stata pensata anche una versione per il nuovo spazio Milanese della galleria prevista per il prossimo settembre, si concentra su un aspetto specifico della produzione dell’artista: gli scatti realizzati con il formato Polaroid che coprono quasi cinquant’anni di carriera.
Walter Pfeiffer (1946, Beggingen, Svizzera vive e lavora a Zurigo) ha iniziato a fotografare durante i primi anni Settanta senza alcuna ambizione tecnica, ma spinto dalla necessità di rappresentare direttamente soggetti che esprimessero bellezza, erotismo e la sensazione di libertà, incarnati in particolar modo nei corpi e nei riti degli adolescenti. Dai primi soggetti fino ai più recenti scatti nessun formato come quello della polaroid meglio restituisce tale sensazione di immediatezza, ingenuità e abbandono essendo così intrinsecamente legate ad una mezzo rapido e difficilmente calibrabile. Le foto raccolte per la mostra tratteggiano un percorso personalissimo che dimostra anche il ruolo pioneristico di Pfeiffer nei linguaggi e nei temi di tanta fotografia contemporanea. Il suo lavoro, oggi internazionalmente riconosciuto (all’artista sarà dedicata una grande mostra personale allo Swiss Institute di New York nel 2022), si è diffuso inizialmente grazie a una rete sotterranea di estimatori e grazie alla circolazione e la stampa di libri e poster personalmente curati dell’artista e che nel tempo oggi hanno guadagnato lo status di oggetti di culto. Le pubblicazioni cartacee dedicate a Walter Pfeiffer rappresentano del resto un brano importante della sua produzione ed è anche per questo che la galleria Gregor Steiger ha realizzato un piccolo volume che raccoglie le immagini delle opere in mostra. Lo scorso mercoledì inoltre, presso la Kunsthalle Zurighese in un evento durato 24 ore sono state presentate le foto che Pfeiffer ha realizzato per Bottega Veneta e che catturano il linguaggio stilistico della nuova collezione uomo concepita da Daniel Lee, direttore creativo del marchio e grande estimatore dell’arte di Pfeiffer. Per l’occasione è stato realizzato un volume in edizione limitata dal titolo Weak in the presence of beauty che oltre a raccogliere gli scatti mostra anche i ritratti che l’artista ha disegnato a mano per ciascuno dei modelli.
A Walter Pfeiffer abbiamo fatto qualche domanda per approfondire alcuni punti della sua carriera e dei suoi nuovi progetti.
La sua ultima mostra da Gregor Steiger si concentra sulla sua produzione di immagini nel formato Polaroid, cosa racconta questa scelta e questa pratica negli anni?
Quando iniziai a usarle all’inizio degli anni ’70 non mi ponevo troppe domande rispetto al mezzo in sé, quello che mi interessava era catturare velocemente la bellezza in un momento, è un formato che si presta facilmente a questo risultato ma inizialmente non pensavo certo che queste immagini “grezze” potessero avere in futuro un vero e proprio valore. Ma poi nel tempo ne ho sempre realizzate e questa mostra documenta un po’ quella produzione.
Chi guarda oggi al suo lavoro non percepisce i suoi scatti come ‘grezzi’ o non professionali, anzi: lei è indubbiamente uno dei maestri di un certo approccio alla fotografia…
La verità è che io non avevo una formazione vera come fotografo, ho iniziato perché per me era un’urgenza quella di testimoniare i ragazzi e le cose che mi piacevano ed esprimevano libertà, ovviamente in certi ambienti sentivo un senso di inferiorità tecnica perché io non ero capace di scattare come i grandi autori, Beaton, Avedon e tutti gli altri… in più era una questione anche finanziaria: all’inizio non avevo molti mezzi e mi sono dovuto arrangiare. Una delle prime che ho scattato era una foto di gruppo, al tempo avevo una piccola Polaroid molto economica… alcune di quelle prime immagini non rappresentavano per me il prodotto finale ma servivano come base per realizzare le mie illustrazioni, perché una volta scattate le ingrandivo e su quelle immagini costruivo i miei disegni.
Questo rapporto con il mondo dell’illustrazione, della grafica mi sembra sempre percepibile in filigrana in tutta la sua produzione e crea una curioso paradosso tra immagini che appaiono sempre dirette e una certa “struttura” progettuale…
È proprio così! Negli primi anni ’70 studiai pittura e disegno alla F+F (la scuola di ispirazione Bauhusiana fondata da Serge Stauffer n.d.r.) che mi ha influenzato molto, ho lavorato a lungo come grafico, illustratore e ancora adesso progetto i poster e le mie pubblicazioni. Precedentemente avevo lavorato anche per dei grandi magazzini qui a Zurigo, e lì ho imparato come organizzare gli oggetti e modelli nello spazio, perché in fondo quell’idea e la pratica di staging è arrivata ancora prima per quelle finalità di seduzione commerciale piuttosto che per esigenze artistiche, al tempo non sapevo proprio come scattare con la macchina fotografica!
Quando ha iniziato a concepire la sua fotografia come il suo vero linguaggio?
È avvenuto attorno ai primi anni ’70, un mio amico che a differenza di me era un fotografo professionista vide alcune delle mie istantanee e mi incoraggiò molto. Organizzai un seduta di gruppo mettendo insieme amici e le persone che mi sembravano più belle in città, non fu semplice perché ero molto nervoso quando ci ritrovammo insieme: ora sono vecchio ma ho sempre avuto problemi nervosi e questa mano mi è sempre tremata ma al tempo stesso non ho mai voluto usate un cavalletto, preferisco muovermi liberamente nello spazio e non essere vincolato a un punto… anche per ovviare a questo problema che ho con la mano ho sempre usato il flash per scattare. Ho iniziato totalmente come un autodidatta e quando studiavo mi imbarazzava un po’ condividere le mie foto con gli altri studenti e figuriamoci con i professori!
Eppure, molto rapidamente il suo lavoro è stato riconosciuto: nel 1972 lei è uno degli autori che parteciparono alla mostraTransformer: Aspects of TravestyalKunstmuseum di Lucerna, una mostra a dir poco leggendaria su temi quali il travestitismo e le sessualità non normative, soggetti mai così contemporanei come oggi…
La mostra era curata Jean-Christophe Ammann che è stato per moltissimo il mio editore, con lui abbiamo fatto molte pubblicazioni. Per Transformer esposi le foto di Carlo Joh, un giovane transessuale, i ritratti furono realizzai a più riprese nell’arco di qualche mese… la sua bellezza era incredibile e io scelsi anche tutti gli accessori e il make-up: sono sempre stato un one man band! Ancora oggi non ho bisogno degli stylist che pare siano diventati più importanti dei designer. Gli abiti su Carlo non erano certo firmati, non c’era ancora davvero quella cultura dei brand di lusso, tutto quello che indossa era recuperato in negozietti e in mercati di poco valore. Ma era il suo volto e il suo corpo, la sua forza espressiva a colpirmi… le foto però testimoniano anche qualcosa di triste legato alla bellezza, perché di sessione in sessione Carlo era sempre più magro e morì inaspettatamente prima ancora che io e Ammann facessimo la selezione di immagini finali da esporre a Lucerna. Anche le foto stesse erano fragili perché furono stampate in bianco e nero su una carta molto leggera ed economica.
Suona incredibile ma ancora oggi dopo quasi cinquant’anni alcuni dei lavori mostrati aTransformerfarebbero scandalo e creerebbero problemi per le tematiche rappresentate: come fu la recezione al tempo?
Non saprei, per me e altri artisti rappresentare quei soggetti era molto naturale ed ero guidato da forze quali la seduzione e il desiderio… certamente anche una certa naïveté! Eppure se penso anche ai lavori di Jürgen Klauke tutto veniva molto spontaneamente. Ricordo anche un pubblico molto rispettoso… le serie di foto di Carlo Joh furono acquistate tutte in blocco, e sono contento che recentemente la galleria è riuscita a recuperarle tutte. C’era poi anche questo grande legame con il pop, con personaggi che avevano portato sulla scena aspetti del travestitismo come Lou Reed, Bowie e altri… in fondo era anche un punto d’incontro con l’Europa e l’America con artisti come Andy Warhol che per me è sempre stato un punto di riferimento in tutto il mio lavoro.
Le reazioni più forti ci furono non tanto per la mostra ma dopo la pubblicazione del mio primo libro (Pfeiffer, 1970-1980, Elke Betzel Verlag, 1980 n.d.r.), forse era troppo presto per un libro tutto di foto in bianco e nero di quel tipo!
Quel libro è un diventato un vero e proprio oggetto di culto: nel 2003 la rivista Artforum lo annoverò tra i libri d’arte più importanti degli anni ’80 e poi venne ristampato giusto?
Allora anche io ho fatto qualcosa di importante! Sì il libro è stato ristampato da Nicolas Trembley anche se il bianco e nero non è proprio come l’originale…
Il suo lavoro è stato pionieristico non solo per il ‘come’ ma anche per ‘cosa’ rappresenta dunque, sente una certa continuità in fotografi delle generazioni successive?
Forse sono arrivato troppo, troppo in anticipo! Ma io non mi sento nessuno, ci sono fotografi molto più giovani e che hanno più successo di me, sono invidioso! Il mio stile negli anni non è molto cambiato né in bene né in male credo, certamente ho imparato a utilizzare il colore… ma ad esempio non amo molto il digitale.
Che rapporto ha con le immagini di moda? Anche in questo senso il suo sguardo è stato anticipatorio di una vera e propria tendenza che continua ininterrotta da almeno i primi anni ’90, oltre a essere lei stesso autore di numerosi editoriali e collaborazioni con brand…
Se penso a quando ho iniziato non mi sarei mai immaginato di poter fare delle cose simili perché per me quelle foto di moda erano puro oggetto di piacere: da giovane quando ero alla scuola d’arte passavo ore nella biblioteca a guardare le riviste come Vogue o Harper’s Bazaar degli anni ’50, ’60 e i miei colleghi erano stupiti per questa mia fascinazione. Poi devo molto alla moda e ad alcuni personaggi fantastici come Manolo Blahnik che negli anni ’70 apprezzò molto le mie illustrazioni e a Londra mi introdusse a un sacco di bella gente, creativi e artisti del tempo.
Le piace scattare editoriali?
Amo lavorare per le riviste e per i brand: ma se lavoro per un progetto di moda significa che non sto lavorando per me ma per un committente e quindi sento più la pressione e l’ansia da prestazione. A dire il vero le cose sono un po’ cambiante col tempo e non ho più così paura di lavorare con le riviste, anche queste fotografie commerciali mi sono servite molto per imparare.
Anche dall’ultima collaborazione con Bottega Veneta è nata una bellissima pubblicazione…
Sì sono molto felice del risultato, mi era stato detto dal mio agente che Daniel Lee ama molto la mia fotografia e che colleziona tutti i miei libri, così sono venuto a Milano e ho scattato tutti quei modelli e personalità come Roberto Bolle. Per un progetto così ho accesso a tutte queste cose che posso usare sia per il mio committente che per la mia arte: di ciascun modello ho fatto anche un disegno.
In tutta la sua carriera ci ha mostrato lo stesso soggetto, sempre lo stesso, ma sempre nuovo: la bellezza e in particolare la giovinezza. Come ha visto cambiare questo ritratto della gioventù negli anni?
Non saprei: per me è fondamentale lo sguardo e l’impressione immediata che ho quando vedo un soggetto che mi colpisce, oggi è più difficile per me essere così sfacciato e fermare qualche giovane ragazzo per strada come avveniva un tempo e chiedergli di posare, perciò non lo faccio più da solo questo casting ma sono assistito. Sicuramente è cambiata la consapevolezza di tanti ragazzi che vedono la propria bellezza come un valore; ma se non c’è una vita, una personalità dietro quel volto la cosa mi annoia.\
L’immagine è diventata troppo autoreferenziale, un’ossessione narcisistica?
Molte persone oggi vogliono essere supermodelle e supermodelli, non credo ci sia più quell’ingenuità di quando ho iniziato a lavorare, un po’ di quella purezza si è persa.
Inoltre preferirei davvero costruire una relazione fotografica nel tempo, ma sta diventando sempre più difficile oggi perché puoi davvero fotografare qualcuno solo una o due volte, in fondo la fotografia serve anche a tentare di fissare nel tempo l’impermanenza della bello.
Fino al 17 luglio
WALTER PFEIFFER
Polaroids 1972–2021
Galerie Gregor Staiger
Zurigo